giovedì 30 gennaio 2025

Parole per dirlo: il sogno

I ceramografi attici rappresentavano le parole con le lettere che uscivano dalla bocca dei parlanti in ordine di pronuncia   

Il lessico è una chiave di accesso alla cultura, al pensiero e alla visione del mondo di una società. Le parole non si limitano a designare oggetti o azioni, ma incorporano stratificazioni di significati, riflessi di concezioni religiose, filosofiche e scientifiche.

Ogni lingua organizza l’esperienza in modi specifici, creando distinzioni che possono non esistere altrove. Comprendere il lessico di una cultura significa dunque entrare nel suo sistema di pensiero, nei suoi schemi interpretativi, nelle sue priorità concettuali.

Questa rubrica si propone - attraverso set di flashcards - di esplorare il significato profondo delle parole, di indagarne le sfumature e il ruolo che esse hanno avuto nel plasmare idee e narrazioni. Perché conoscere le parole significa comprendere il modo in cui, nel tempo, abbiamo dato senso alla realtà.

Un metodo efficace per interiorizzare il lessico di una lingua, antica o moderna, è l’uso delle flash cards. Questa tecnica, basata sulla ripetizione attiva e sull’alternanza di stimolo e risposta, consente di fissare le parole nella memoria a lungo termine, facilitandone il richiamo. L’associazione tra parola e definizione, immagine o contesto d’uso aiuta a stabilire collegamenti più solidi, rendendo il processo di apprendimento meno meccanico e più intuitivo. Le flash cards sono particolarmente utili per il lessico specialistico, come quello delle lingue antiche, poiché permettono di esercitarsi gradualmente e di rafforzare le connessioni tra i termini e i loro significati.

Nelle flashcards di oggi si esplora il lessico del "sogno". La letteratura greca è piena di sogni: premonitori, simbolici, mise en abyme come i sogni tragici.

Come si dice "sogno"? 

Sogno in greco è ὄναρ, neutro oppure ὄνειρος, maschile. Secondo una teoria che risale al linguista Antoine Meillet il maschile designerebbe il sogno come forza personificata e attiva, mentre il neutro farebbe riferimento all'evento. Dai due temi è nata pure una flessione eteroclita  ὄναρ, ὀνείρατος. Secondo Benveniste, p. 313: "Bisogna qui ricordare la distinzione omerica tra l'ónar, il sogno che può essere solo un'illusione e il "buon húpar, che si realizzerà" (XIX 547). I sogni hanno una realtà nel loro ordine proprio, indipendente dalla realtà umana. È all'interno di questo ordine onirico che bisogna stabilire il rapporto tra le due varietà di sogni: i primi (trascuriamo qui i giochi di assonanza del testo greco) entrano da porte d'avorio, deludono "portando parole akráanta"; gli altri entrano da porte di corno, danno la sanzione della realizzazione (kraínousi) a cose vere (étuma). Il potere sovrano dei sogni è la condizione della loro verità, già acquisita, sensibile all'indovino solo, e che l'evento umano si incaricherà di confermare. Cosí i due aggettivi si rispondono: akráanta designa le cose che non avranno esecuzione, in opposizione a étuma, le cose che si riveleranno vere". 

Ed ecco come descrive l'esperienza onirica Eric Dodds, in I greci e l'irrazionale (pp. 151-152): 

"I poeti omerici, in quasi tutte le loro descrizioni di sogni, trattano le cose vedute come "realtà oggettiva". Di solito il sogno assume la forma di una visita resa a un dormiente da una sola figura onirica (la parola stessa oneiros in Omero significa quasi sempre figura, non esperienza onirica). Questa figura onirica può essere un dio, uno spettro, un messaggero onirico preesistente o un'immagine" (eidōlon) creata per l'occasione; però, quale che sia, esiste oggettivamente nello spazio ed è indipendente dal sognatore. Entra dal buco della serratura (le camere da letto omeriche non hanno finestre né camino); si pianta a capo del letto per comunicare il suo messaggio, e fatto questo si ritira per la stessa strada. Il sognatore intanto è quasi sempre completamente passivo: vede una figura, ode una voce, e questo è tutto; è vero che talvolta risponde nel sonno, e una volta tende le braccia per abbracciare la figura onirica, ma questi sono gesti fisici oggettivi, che si vedono fare ai dormienti. Il sognatore sa di trovarsi nel suo letto e non altrove, anzi sa di essere addormentato, poiché la figura onirica ha cura di farglielo notare: "Tu dormi, Atride", dice il sogno cattivo nel II libro dell'Iliade; "Tu dormi, Achille", dice lo spettro di Patroclo; "Tu dormi, Penelope", dice l'immagine evanescente" dell'Odissea. 

(...) in ogni epoca i Greci quando descrivono un qualunque tipo di sogno, si servono di un linguaggio che sembra suggerito da sogni in cui il sognatore riceve passivamente una visione oggettiva. I Greci non parlavano mai di avere o fare un sogno, ma sempre di vederlo: ὄναρ ἰδεῖν, ἐνύπνιον ἰδεῖν. Questa espressione si adatta soltanto a sogni di tipo passivo, ma la troviamo anche quando il sognatore stesso è la figura centrale dell'azione sognata. Ancora: non solo si dice che il sogno "visita" il sognatore (φοιτᾶν, ἐπισκοπεῖν, προσελθεῖν ecc.), ma anche che gli "sta sopra” (ἐπιστῆναι). Quest'ultima espressione è particolarmente frequente in Erodoto, ove è stata presa per una reminiscenza dell'omerico στῆ δ᾽ ἄρ᾽ ὑπὲρ κεφαλῆς "stava sopra la sua testa";1" ma il fatto che l'espressione rit corra nelle cronache dei templi di Epidauro e di Lindo, e in moltissimi autori posteriori, da Isocrate agli Atti degli Apostoli difficilmente può essere spiegato in questo modo. Sembrerebbe che il sogno che si concretizza in un oggetto o in una visione avesse affondato radici profonde non solo nella tradizione letteraria, ma anche nell'immaginazione popolare."

Ecco un modo per esercitarsi: 

Sogno e realtà: la mise en abyme

Chi ha visto il musical La La Land - film del 2016 scritto e diretto da Damien Chazelle - ricorderà che poco prima della fine c'è una scena in cui la protagonista Mia, si trova casualmente in un locale jazz col marito. Entrando, Mia nota il logo "Seb's" che aveva disegnato lei stessa e capisce che Sebastian, che ha amato anni prima, è riuscito ad aprire il proprio club. I loro sguardi si incrociano e Sebastian inizia a suonare al piano il tema del loro amore: Mia immagina come sarebbe stata la loro vita se i loro sogni si fossero allineati e la loro relazione fosse continuata.

 


Mi ha sempre colpito la perfezione formale di questo 'sogno a occhi aperti': in poche scene molto stilizzate viene ripreso ogni momento della storia d'amore e ripresentato in chiave idealizzata: spazi e colori sembrano ora quelli del teatro delle ombre, ora scenari di cartapesta, tutto è bello e perfetto, i due si amano e tutto va bene, ad ogni bivio la storia prende esattamente la piega perfetta che ci si aspetta da un musical, da una storia d'amore. Non c'è dialogo in questo pre-finale, solo musica. La recitazione è molto enfatizzata, i gesti ampi e stilizzati proprio per mettere in risalto il carattere di 'miniatura' della scena. È un film nel film, un musical nel musical. Il musical 'moderno' dentro il musical postmoderno!

La La Land: Mia e Sebastian a Parigi, nella mise en abyme

I sogni - a occhi chiusi o ad occhi aperti - hanno spesso questa funzione drammaturgica. Se la letteratura e la sua resa drammaturgica hanno senso è anche per la loro capacità di mostrare le cose, le cose immaginate, sognate, possibili, passate, future... moltiplicare i piani prospettici, arricchire e potenziare il modo in cui la realtà è.

Nella tragedia greca che, come il musical, era parola canto e danza, i sogni sono spesso mise en abyme. Una mise en abyme è una scena - con una sua autonomia drammaturgica - che condensa, ricapitola o riassume i temi dell'opera che la contiene.

Il sogno di Atossa nei Persiani di Eschilo rappresenta un potente esempio dell'uso di questa tecnica. Il sogno, che Atossa racconta ai suoi consiglieri, turbata per la spedizione del figlio Serse contro la Grecia, è una visione inquietante: due donne si contendono una terra, una vestita con abiti persiani e l’altra con abiti dorici. Serse tenta di dominarle, agganciandole al suo carro, ma una delle due si ribella, facendo precipitare il sovrano. Al risveglio, recatasi a compiere un sacrificio, la regina vede un’aquila sopraffatta da uno sparviero. Il sogno, duplicato dalla visione mattutina, sconvolge la regina.

La regina Atossa nei Persiani, Siracusa 1990


La breve scena narrata è un microcosmo che racchiude i temi centrali della tragedia - la polarità greci vs persiani, il carattere violento, hybristico del tentativo di Serse, la conflittualità ma anche la somiglianza fra le due parti in lotta (due donne), e che crea un funesto presentimento sull'esito della battaglia e in generale dell'impresa di  Serse. Se la mise en abyme di La La Land era retrospettiva, immetteva in una linea temporale alternativa che mostrava come poteva (?) essere; nei Persiani essa è presagio del futuro e ne indica le coordinate interpretative. Un'aria di fallimento circola sulla scena. La mise en abyme rielabora simbolicamente i temi principali del dramma, condensandoli in un'unica scena visionaria. Così, il sogno riflette non solo gli eventi futuri, ma anche le dinamiche morali e politiche che li determinano ed in modo particolare traspone la guerra su un piano simbolico differente. 

Infatti, se fosse una semplice reduplicazione, la mise en abyme perderebbe la sua pregnanza. Nei sogni, la trama e i temi essenziali vengono rielaborati e prefigurati, talvolta in modo deformato, per rivelare un  significato profondo e non altrimenti manifesto dell’opera e la consapevolezza che il personaggio ha di tale significato. Mia è pienamente consapevole che la mise en abyme della storia d'amore con Sebastian può avere vita solo 'filmica' e solo all'interno di un certo tipo di filmografia 'classica': l'età d'oro del musical di Hollywood; la regina Atossa invece stenta a comprendere il significato del sogno, anche se ne avverte il carattere funesto.

Attraverso il sogno si manifesta così la condizione tragica della protagonista: mentre Atossa cerca di interpretare la visione, lo spettatore è già consapevole del destino che attende i Persiani. È il noto fenomeno dell'ironia tragica, una dinamica tipica della tragedia, con cui genialmente si sfrutta sul piano drammaturgico la necessaria assenza di suspence, data la perfetta conoscenza dei soggetti attinti dal mito. Il pubblico ha sempre, statutariamente, una comprensione maggiore rispetto ai personaggi e ciò permette di creare una dinamica di progressiva scoperta, da parte del personaggio, di una verità che è già consegnata all'immaginario collettivo. 

La stessa dinamica ricorre nel caso di altri sogni celebri, come il sogno di Clitennestra nelle Coefore di Eschilo: la regina sogna di partorire e allattare un serpente che infine morde il suo seno, prefigurando l’omicidio che suo figlio Oreste compirà. Il sogno anticipa gli eventi, e rivela il grado di consapevolezza che i personaggi hanno del destino che li attende, relazione che è chiara allo spettatore prima che ai personaggi stessi.

Ancora, la mise en abyme in forma di sogno consente di mantenere un'apertura a diverse interpretazioni del significato del mito (o in questo caso della storia): le due donne possono esprimere infatti ordine e disordine, potere e resistenza, Persia e Grecia, forze opposte all’interno della stessa Grecia, o altri significati simbolici ancora, senza forzare lo spettatore a sciogliere in modo rigido e definito il simbolismo. Mentre è chiaro su Serse: il suo è un tentativo di imporsi su forze estranee, la cui resistenza  provoca infine la caduta del carro. Il fallimento dell'impresa del persiano diventa quindi il simbolo della hybris, la punizione per il tentativo di forzare un equilibrio.

Come in un gioco di specchi, il tentativo di fuga della regina dalla realtà che il sogno le annuncia, o almeno la speranza di trovare conforto nel rito, viene bloccata da una ulteriore mise en abyme, dopo quella onirica: recatasi agli altari la regina vede un’aquila, simbolo del potere, e uno sparviero, che la sopraffà. L’aquila, che nelle tradizioni mitologiche è spesso un simbolo della divinità e del potere assoluto, viene sconfitta da un uccello più piccolo ma più agguerrito, lo sparviero.

Torniamo brevemente a Mia e a La La Land. A chi serve il sogno ad occhi aperti di Mia? Nelle scene precedenti, si è visto come Mia fosse felice della sua vita come si è sviluppata dopo la fine dell'amore per Sebastian. Mentre forse così non è per Sebastian: il suo sguardo è più triste. Ma la cifra della mise en abyme non è il rimpianto, i destinatari del suo senso non sono i protagonisti: siamo noi spettatori. È a noi che viene detto che le storie d'amore a lieto fine, il "vissero per sempre felici e contenti" non è una delle diverse possibilità che la vita offre, non è ciò che poteva accadere se avessimo scelto la giusta uscita di una highway affollata. È ciò che accade nell'arte, nei film, nelle canzoni, nei romanzi: è un prodotto dell'arte. La linea temporale in cui ciò accade è una linea di tempo perduto, inesistente nella realtà.

La "menzogna romantica", avrebbe detto Girard, un desiderio che non ci appartiene


Per approfondire biografia, opere, drammaturgia di Eschilo vai qui

Bibliografia essenziale sul sogno nella tragedia:

E. Dodds, I Greci e l'irrazionale, 2009 (1951)

G. Guidorizzi, Il compagno dell'anima. I greci e il sogno (2023)


lunedì 27 gennaio 2025

Città dolenti (o dell'antisemitismo antico)

L’immaginario umano produce dei corti-circuiti. 

Uno dei più notevoli è quello che fa collidere l’idea di città con quella di inferno. Città infernali. Dante immagina, all’interno dell’abisso infernale, una città: la città di Dite, protetta da mura ferrigne, turrita, chiusa da porte e circondata da una palude. Città di peccatori - a loro modo città infernali - sono nella Bibbia Sodoma e Gomorra, distrutte da Dio per i loro peccati. Infernale è la Manhattan di 1997: Fuga da New York: carcere di massima sicurezza a cielo aperto da cui il criminale Jena Plissken deve recuperare il Presidente degli Stati Uniti, finito lì dopo il dirottamento del suo aereo. 



C'è di più: quando nei primi mesi del 1942 i capi nazisti si riuniscono sulle sponde del lago Wannsee, a pochi chilometri da Berlino per discutere della “soluzione finale” - ma in realtà per presentare una soluzione già decisa dalle SS e in fase di preparazione - non sanno fino a che punto sono eredi di una lunghissima tradizione.  Auschwitz, naturalmente (ma non solo). La città infernale. L'inferno in terra, l'inferno-città.

Facciamo un salto indietro per considerare una serie di stranissimi racconti: nell’accingersi a narrare la guerra di Pompeo contro i Giudei, lo storico greco Diodoro ritiene opportuno esporre per sommi capi una trattazione circa le origini del popolo giudaico. L’excursus si caratterizza per il fatto di considerare la fondazione di Gerusalemme come un episodio della storia dell’Egitto, luogo da cui sarebbero – secondo Diodoro – partiti i coloni fondatori della illustre città.

Il racconto ha inizio con un periodo di calamità: un’epidemia infuria in Egitto. Gli Egizi giungono alla conclusione che gli déi sono adirati a causa dei molti forestieri che vi risiedono e hanno introdotto culti e costumi stranieri. Decidono dunque di cacciarli. Gli espulsi fondano colonie, parte in Grecia, sotto la guida di Danao e Cadmo; parte in Palestina, guidati da Mosè, fondatore e legislatore della colonia di Gerusalemme. 

Lo stesso racconto, con alcune varianti, esiste in molte altre versioni. 

Vediamo alcuni di questi racconti: In Manetone, apud Ioseph. I 228-52 troviamo questo racconto: il re egizio Amenophis volle un giorno vedere gli dèi, come era stato concesso al suo predecessore. Su consiglio di un saggio, fa radunare nel deserto ottocentomila lebbrosi, fra cui anche sacerdoti, presenti nel paese e li sottopone ai lavori forzati nelle cave di pietra. Il saggio è però assalito da una visione di sventura e teme l’ira degli dèi: annota la sua profezia e si uccide. I lebbrosi ottengono di potere istituire una colonia ad Avari, l’antica capitale degli Hyksos ed eleggono come capo un sacerdote di nome Osarsiph. Costui dà loro delle leggi che prescrivono tutto ciò che in Egitto è vietato, e vietano ciò che in Egitto è prescritto: gli dèi non devono essere venerati, i tabù alimentari non devono essere rispettati, non biso- gna avere alcun rapporto con chi non appartiene al gruppo. La città viene fortificata e gli Hyksos, che avevano in precedenza dominato sull’Egitto e ne erano stati scacciati, vengono invitati a partecipare ad una sollevazione. Gli Hyksos ritornano. Il faraone si ricorda della profezia e fugge in Etiopia. I lebbrosi e gli Hyksos dominano l’Egitto: i templi sono distrutti, i santuari trasformati in cucine dove si arrostiscono animali sacri. Infine Amenofi ritorna e caccia i ribelli. 

Andiamo a Strabone, il geografo: secondo Strabone un sacerdote egizio di nome Mosè decide di abbandonare il paese perché insoddisfatto della sua religione ed emigra in Giudea con un folto stuolo di simpatizzanti. Egli rifiuta la tradizione egizia che raffigura gli dèi in forma di animali e riconosce che Dio è un essere unico non riproducibile da nessuna immagine. 

Anche per Lisimaco, anch’egli citato da Giuseppe Flavio, autore di un racconto particolarmente polemico, redatto non prima del IV sec. a. C. il racconto inizia con una carestia. Un oracolo ordina al re Boccori di purificare i templi dalle persone «impure ed empie». Il riferimento è agli Ebrei, i quali, colpiti dalla lebbra e da altre malattie, avevano trovato rifugio nei templi. Boccori ordina di annegare i lebbrosi e scacciare gli altri nel deserto. Un certo Mosè si preoccupa di organizzare gli esuli secondo i dettami di una contro-religione, li conduce fuori dal paese e ordina loro di non essere benevoli con nessuno e di distruggere tutti i templi e gli altari.

La malattia, in un caso epidemia nell’altro carestia, fa tutt’uno in questi racconti con l’assenza degli dei. Gli dèi sono distanti, adirati: ed è il corpo degli uomini (la pelle soprattutto) a risentirne.

Una versione un po’ differente è in Cheremone, precettore di Nerone, vissuto ad Alessandria nella prima metà del I sec. d.C. La situazione di partenza è qui una rivelazione della dea Iside, che appare in sogno ad Amenophi e lo rimprovera per aver distrutto un tempio. Lo scriba e sacerdote Phiribantes lo consiglia di placare la dea ripulendo l’Egitto dai lebbrosi. Il re dunque raduna i lebbrosi in numero di duecentocinquantamila e li bandisce dal paese. Essi si radunano sotto la guida di Mosè e Giuseppe (Tisithen e Peteseph): a loro si uniscono altri emigranti a cui Amenophi aveva negato l’uscita dal paese. Gli espulsi si danno una legislazione ispirata ai dettami di una contro religione e, insieme agli emigranti, conquistano l’Egitto costringendo il Re a fuggire in Nubia. Il successore Ramses riesce a cacciare i ribelli e a rimpossessarsi del paese.

Infine, la versione più polemica di tale leggenda si trova nelle Historiae di Tacito. Anche qui la situazione di partenza è costituita da un’epidemia che infuria in Egitto e causa malformazioni fisiche: il re Boccori consulta l’oracolo e apprende che deve purificare il paese e mandare in altre terre gli Ebrei, razza invisa agli dèi. Gli Ebrei vengono cacciati nel deserto. Mosè li organizza secondo i dettami di una contro-religione e li conduce in Palestina dove fonda Gerusalemme. 

Che significano questi racconti? Jan Assmann che li ha analizzati in Mose, l'egizio, ha evidenziato come vi sia sotteso un medesimo schema generale (che diverge leggermente nel racconto diodoreo):

1. Situazione di partenza: una mancanza (un contagio);

2. Misure per porre rimedio alla situazione = concentramento dei portatori di contagio;

3. Organizzazione sotto un capo, legislazione.

A questo punto, i racconti convergono su un particolare: i separati si dànno leggi e costumi che sono l’inverso di quelli ‘normali’: in particolare, la loro religione si configura come una contro-religione; per questo vengono cacciati.

Questo schema, a ben guardare, non è se non l’inverso dello schema dei riti di iniziazione: in questi ultimi si tratta di integrare le persone nella città, in quelli di allontanare una parte della popolazione dalla città: l’ultimo momento del processo infatti vede l’allontanamento definitivo di un gruppo di individui. 

Parliamo di allontanamento, ma potremmo parlare di ordalìa: gli allontanati infatti non possono ritornare, vengono abbandonati in condizioni di estrema difficoltà, in cui molto probabilmente non sopravviveranno.

Per sanare una mancanza, dicono questi racconti, occorre separare, dividere, isolare. Ma ciò che è stato separato può dare origine ad una “contro-comunità”, ad una inversione normativa: tutto ciò che prima era proibito ora è prescritto e viceversa. Tale inversione normativa riguarda in primo luogo la religione: la nuova comunità sembra portatrice di valori religiosi specularmente antitetici rispetto a quelli vigenti e di una aperta e talora violenta ostilità nei confronti dei vecchi valori e delle vecchie pratiche. La fondazione avviene sotto il segno della negazione e dell’inversione: un gruppo si isola capovolgendo i valori altrui e proibendo il contatto con l’altro da sé. 

Anti-città. 

A conferma della propria identità “negativa”, vengono accolti coloro che nell’ordine precedente erano identificati come “nemici”: ad Avari ritornano gli Hyksos. 

La memoria mosaica extra-biblica rientra dunque in una serie di miti e di riti, studiati dagli antropologi, che inscenano la rinuncia coatta alla vitalità da parte di un segmento “malato” della popolazione affinché la parte sana possa essere rivitalizzata. Ma il consenso sulla discriminante può non essere totale, così come la parte dichiarata malata può invece sentirsi sana e reputare malato il corpo da cui si stacca: individui o gruppi espulsi ritualmente possono fondare spazi politici rivendicando una propria “contro-identità”. 

I vari momenti dello schema anti-integrativo sono talora scambiabili, secondo l'ottica da cui la leggenda è narrata: la contro-religione ora  è conseguenza della segregazione, ora ne è causa; preesistente alle necessità della separazione e anzi criterio per operarla. Una fondazione può essere il luogo inospitale e remoto dell’esilio forzato o la ‘terra promessa’ di un gruppo di innovatori o di rivoluzionari.



domenica 26 gennaio 2025

Desiderio, legge e storia: come popoli e individui rinunciano a vivere per non cambiare (su La legge del desiderio di Massimo Recalcati)

[segue da Da Yentl alla psicoanalisi] Una delle radici bibliche della psicoanalisi è individuata da Recalcati nel concetto di "desiderio" che si oppone alla concezione ritualistico-cultuale della fede imperniata sul sacrificio. L'uomo religioso non accede alla salvezza: è il messaggio di Gesù. Egli ha mancato al suo compito che è la realizzazione della vita, il suo dispiegamento generativo, il godimento pieno, lo spendersi senza riserve. La vera colpa è dunque - nella predicazione di Gesù - la difesa strenua della propria vita, l'attitudine securitaria, la paura della perdita che si trasforma in impotenza. Il servo che seppellisce il suo talento, nella nota parabola, tradisce il suo desiderio. In termini psicoanalitici il servo confonde impossibilità con impotenza. Fra le "malattie" del desiderio c'è anche l'utopia, che differendo la realizzazione della vita e la pone sotto il segno del risarcimento illimitato: l'attesa religiosa rende il mondo sterile. 

L'antagonista della Vita è la Legge, con le sue pretese razionalistiche e il peso del sacrificio che richiede. La Legge che comprime e fustiga con severità inaudita il desiderio. È questo - dice Recalcati - il funzionamento del Super-io: una legge che sanziona continuamente e con durezza il desiderio, godendo masochisticamente. 

Ma la Legge non è necessariamente sacrificio: anzi, non lo è affatto. Quella sacrificale è una tentazione idolatrica: nell'Antico Testamento - argomenta Recalcati - la Legge è declinata in tutt'altro modo - come principio di separazione, come principio dell'impossibile, come principio dell'interruzione della stessa Legge - a sostegno del desiderio. 

Il discorso sul desiderio porta naturalmente al desiderio dell'Altro - non c'è desiderio in solitudine - e alla "chiamata" dall'Alto che impone una decisione (se seguire la chiamata). È quello che accade nell'esperienza dell'analisi: la trasformazione del soggetto avviene attraverso l'ascolto della parola che viene dall'inconscio. Non c'è guarigione nell'analisi, ma ripristino dell'alleanza del soggetto col suo inconscio. 

Poste queste basi, Recalcati analizza altre radici cristiane della psicoanalisi: il miracolo dell'alzarsi/mettersi in movimento, le idee di maternità e filiazione, il rapporto maestro-discepolo, l'abbandono/assenza dell'altro, il messaggio del sogno (più problematica appare ai miei occhi l'interpretazione della risurrezione come radice della pratica analitica)

Ora, pur restando un non detto, sembra evidente che la figura di Gesù - come maestro, come colui che mette ciascuno in contatto con la chiamata del suo desiderio - presenta forti analogie con la figura e la funzione dell'analista. Tutto il libro è percorso da questa analogia per così dire criptata, occulta. Questo - se fondato - ha due conseguenze: da un lato spiega, a mio avviso meglio della spiegazione che ne dà Recalcati, il fraintendimento piuttosto comune del messaggio gesuano (che ben pochi intendono come chiamata del desiderio!). La predicazione di Gesù e tutta all'interno dell'ebraismo. Ed è nell'ebraismo del Secondo Tempio e non altrove che la Legge ha assunto il significato mortifero e la religione il carattere casuistico che Gesù vuole smantellare. I Gentili - ai quali infatti si fu in dubbio nella prima comunità cristiana se estendere la Buona Novella - permeati di cultura greco-romana, non potevano cogliere pienamente il valore del richiamo alla Legge del desiderio, non avendo sperimentato la sua (del desiderio) compressione e mortificazione ad opera della Legge. Il messaggio era rivolto agli Ebrei osservanti e religiosi, i soli in grado di capirlo. 

Ma anche i soli che avessero necessità di capirlo. 

A questo punto le strade sono due: o le malattie del desiderio sono universali, pertinenti all'uomo in quanto tale, necessarie, o esse sono storiche e contingenti, pertinenti all'ebraismo del Secondo Tempio, come si è configurato per ragioni storiche. Allora nell'ebraismo si annuncia una verità di più ampia portata? Valida per i Gentili? di ieri e di oggi? In un caso e nell'altro è un lavoro di estrazione della psicoanalisi dalle sue radici che può rendere fondate e chiarificare le premesse poste da Recalcati.  Questa estrazione è necessaria anche ai fini di recuperare l'aspetto diacronico, che è totalmente assente nella sua ricostruzione: la storia, insomma, dei popoli e dei singoli, che spiega il cedere al godimento masochistico del sacrificio, il costituirsi delle pulsioni securitarie, il rifugio nel culto ritualistico, la chiusura all'Altro e il "no" alla chiamata. L'esperienza della crisi, della minaccia, dell'annientamento che produce (può produrre) la sclerotizzazione che Gesù cerca di combattere. 

Torno quindi ad Assman, La memoria culturale, che questo processo lo ha messo bene in evidenza: una cultura risponde alla sfida - dell'annientamento, dell'assimilazione - non col caos ma fortificandosi in senso limitico, diventando "religione". Il libro del Deuteronomio è per Assmann "il documento costituente di un movimento di resistenza etnica", di distinzione e resistenza mediante la sacralizzazione dell’identità. 

Questo processo avviene anche in Egitto. Durante l'età persiana - il dominio straniero su uno 'stato' da millenni esente da contatti violenti con altri popoli, l’Egitto si sente per la prima volta minacciato culturalmente e politicamente: contro questa minaccia - bene reale e concreta! -  deve allora mobilitare le sue forze.  Assmann legge in questo senso  il grandioso programma edilizio messo in opera dal re Nectabo poi proseguito dai Tolomei. Viene infatti edificato un gran numero di templi, tutti con la stessa pianta, tutti delimitati da alte mura, tutti  coperti da iscrizioni, tutti con l'intento di codificare la tradizione in forma monumentale. Contro il rischio dell'inforestierimento l'ossessiva moltiplicazione dei rituali, delle immagini e degli scritti sacri, la costruzione di un modello di vita governata dall’ortoprassia.  All’interno del tempio si vive secondo rigide prescrizioni di purezza. L’Egitto dell'età tarda si autopercepisce come un paese sacro, il paese sacrosanto, il tempio del mondo intero.

Analogamente, Israele crea una religione che ne permette la sopravvivenza all'assimilazione.

Questa idea della religione come 'muro di ferro' comporta la sacralizzazione della vita sul piano dell’ortoprassia, fissata in divieti e comandamenti che rendono palese la distinzione (e la seclusione) rispetto all'Altro, la peculiarità e l'identità in senso enfatico. 

Che cosa la rende necessaria? Assmann identifica diverse tappe decisive, che sono altrettanti eventi traumatici di perdita e annientamento:

  1. Il crollo del regno settentrionale nel 722 e la deportazione delle 10 tribù di Israele 
  2. La nascita sotto la crescente pressione assira della profezia di sciagura dell’opposizione religiosa culminante nel ritrovamento del libro sotto Giosia nel 621 a.C. 
  3. La distruzione del Tempio nel 587 a.C. 
  4. La deportazione e l’esilio e il ritorno dei reduci nel 537 a.C. 
  5. L’affermarsi della religione deuteronomistica sotto i Persiani
  6. La resistenza contro l’ellenizzazione e le guerre dei Maccabei, 
  7. La resistenza contro Roma (il periodo della predicazione diGesù) e la distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C.

Allora possiamo chiederci: qual è l'analogon nella storia dei singoli dell'urto - che questa lista esemplifica - fra i popoli e il potere imperiale che ne ha annientato le culture? Il trauma a cui l'individuo risponde con la fortificazione limitica/ortoprassia? 

Ma anche: è possibile un riallineamento alla chiamata o riequilibrio del soggetto rispetto al suo inconscio indipendentemente da ciò che - fuori dal soggetto - ne ha frantumato l'identità?

Ho acquistato La legge della parola speranzosa di trovarvi la risposta

venerdì 24 gennaio 2025

Da Yentl alla psicoanalisi. Che ruolo ha la Bibbia nella nostra cultura?

Solo quando ho iniziato a fare ricerca universitaria nel campo della storia antica, ho scoperto che la Bibbia può essere studiata, ed è stata studiata, non solo letta (spesso senza capirla). Letta criticamente. È una tradizione di studi viva soprattutto nel nord Europa, in particolare in Germania, dove la filologia biblica, l'orientalistica e la storia di Israele antico sono discipline saldamente radicate nei curricola universitari. 

Io viceversa l'avevo malamente letta - singoli episodi semplificati - per la preparazione alla prima comunione (a sette anni!) e poi certo ascoltata la domenica a messa, nel periodo in cui la frequentavo. Nonostante l'arte, la cultura, il linguaggio che usiamo, i concetti siano intrisi della Bibbia - lo mostra bene un libro come Il dio dei nostri padri, di Aldo Cazzullo -  essa mi era estranea. Quando nel 1983 vidi al cinema Yentl, il musical di Barbra Streisand, (tratto dal racconto Yentl The Yeshiva Boy dello scrittore ebreo polacco Isaac Bashevis Singer) la sua ambientazione, i villaggi ebraici, shtetl, dell'Europa orientale oggi totalmente scomparsi, mi era totalmente sconosciuta. L'intera cultura ebraica, antica e moderna: estranea.



Come spesso accade, il caso si è incaricato di spingermi a colmare questa lacuna. In due forme. Entrambe ebbero a che fare con i libri: il primo fu un'edizione economica, un tascabile, acquistato insieme ai quotidiani, quasi per caso, un sabato di sole in un'edicola vicino alla spiaggia di Mondello, dove abito. Era La lista di Schindler. Sicuramente avevo visto il film, (era il 1997 ed il film è di qualche anno prima) e sicuramente conoscevo la storia e avevo letto Primo Levi, ma per qualche motivo quella lettura mi ha incatenato, quelle immagini perseguitato. Iniziando un percorso che ora so essere quello di molti, ho comprato e studiato una gran quantità di libri sulla Shoà, finché ad un certo ho dovuto smettere: quell'orrore penetrava nella mia vita quotidiana, quel peso, quella domanda - come è potuto accadere? - sembravano inestinguibili. Dopo il libro, il film ha avuto un senso diverso, per me. 

Alcuni dei miei libri sulla Shoà
Altri miei libri sulla Shoà


L'altro libro, anch'esso comprato per caso nei primi anni '2000 è un saggio di Jan Assmann - un egittologo studioso della memoria, morto recentemente, apprendo ora mentre scrivo - dal titolo Potere e salvezza, in cui si parla del legame fra teologia e politica in Grecia, in Egitto e in Israele. Israele? Da lì è iniziato lo studio critico della Bibbia - della storiografia ebraica, della filologia biblica, della storia antica di Israele. Fino al punto che ho pensato di dover imparare l'ebraico antico, cosa rivelatasi impossibile per motivi prettamente logistici (l'unico corso che avevo trovato si svolgeva di sera, abbastanza lontano da casa mia, e in quel periodo i miei figli erano piccoli: impensabile assumere un impegno simile). I motivi per cui la cultura ebraica - pur nella parte che è comune alla cultura cattolica: l'Antico Testamento - è poco familiare, almeno alla mia generazione, sono molti. Il cattolicesimo, a differenza del cristianesimo riformato, ha scoraggiato la lettura diretta, critica dei testi sacri, per privilegiare la lettura confessionale, domenicale. Mediata dal clero. Ciò significa purtroppo banalizzata, edulcorata, appiattita sui topoi dell'omelia che generalmente segue la lettura.

Ma l'altro grande motivo lo dice bene il titolo del libro di David Mendelsohn: Gli scomparsi. La cultura degli shtetl, dei villaggi ebraici dell'Europa orientale, ma anche quella delle comunità ebraiche cittadine è stata annientata, distrutta, sparita dalla faccia della terra. E con essa un patrimonio di modi di vivere, di parlare, di lavorare, di pensare il passato. A Palermo, la mia città, che pure in passato ha avuto una Giudecca, un quartiere ebraico, l'ebraismo contemporaneo è invisibile, quello antico (secoli VI- XV d.C.) bisogna andare a cercarlo, a scovarlo fra le vie del centro storico. Altre città italiane hanno e hanno avuto comunità ebraiche più consistenti e hanno subito le deportazioni durante l'occupazione nazista del 1943/1944.

Per ovviare alla non conoscenza dell'ebraico antico, periodicamente faccio qualche ricerca sull'altra grande lingua della Bibbia: il greco. Con il greco, che insegno e ho faticosamente studiato, mi muovo su un terreno (più) familiare. La Bibbia è stata tradotta in greco in età ellenistica (e poi in latino: la cosiddetta Vulgata). La Settanta, perché 70 furono i saggi chiamati a tradurla e in 70 giorni fecero l'impresa. La Settanta rispecchia una fase importantissima della lingua greca: quando essa, per essere meglio compresa e parlata da un gran numero di persone, si semplifica, perde quelle asprezze morfologiche - il duale, i verbi politematici, alcuni modi disusati - che ne avrebbero reso difficile l'apprendimento per i non madrelingua. Attraverso il greco, si può introdurre a scuola la lettura critica di qualche passo dell'Antico Testamento - la creazione del mondo, il Paradiso e la cacciata, Caino e Abele, il sacrificio di Isacco, Giobbe, la novella di Giuseppe e i suoi fratelli - e indagarne i motivi di continuità e discontinuità con la cultura greca e poi, in generale, occidentale. Sono testi che appartengono a età diverse, di autori diversi e 'generi letterari' diversi. Indispensabile, per cogliere la stratificazione testuale e per ancorare i vari libri, temi, motivi all'ambiente culturale in cui sono stati elaborati è Oltre la Bibbia di Mario Liverani. Il libro è diviso in due parti: nella prima si esplora la storia di Israele antico alla luce delle fonti archeologiche e delle vicende dei grandi imperi coevi, Assiro, Babilonese, Persiani; fonti che documentano insediamenti e modi di vita - e persino religione - ben lontani da quelli raccontati nella Bibbia; la seconda - che si intitola appropriatamente: una storia inventata - cerca di collocare le invenzioni (Esodo, Regno di Davide, Tempio) in un contesto storico verosimile che possa spiegarle. La storia inventata, intorno al nucleo del ritrovamento della Torah sotto Giosia, serve a spiegare gli avvenimenti presenti (conquista, deportazioni, spopolamento di Israele): essi sono il frutto di una colpa, del tradimento di un patto, della dimenticanza. La storia è storia di questa colpa.

Questo modo bipartito di intendere la storia di Israele, frutto appunto di una lettura critica, non filtra purtroppo nei manuali di storia che si usano nelle scuole, dove manca del tutto un discorso sia pure elementare sulla Bibbia come fonte storica e sui problemi che presenta.

Ma, ai miei occhi, quello storico non è l'unico modo per avvicinarsi criticamente alla Bibbia.

La Bibbia infatti è anche la storia delle sue letture e dei suoi lettori. Il contributo che essa ha dato al costituirsi di saperi. Per avere un'idea di cosa si sta dicendo si può pensare all'influenza che la cultura ebraica - oltre naturalmente a quella greca - ha avuto nel pensiero di Sigmund Freud. Di cui è testimonianza il romanzo storico L'uomo Mosè. All'ebraismo di Freud si può arrivare anche tramite Assman, che a Mosè ha dedicato Mosè l'egizio, un saggio sulla memoria di Mosè, e sul rimosso che le pertiene. Il tentativo più organico (secondo le mie conoscenze) di recuperare le radici bibliche della psicoanalisi è quello compiuto di recente da Recalcati nei due libri: La legge del desiderio e La legge della parola. Il primo, che è più recente, a me sembra anche più ispirato. Recalcati sostiene questo: la legge, che è la grande invenzione della cultura ebraica, intesa come legge del Padre, diventa costrizione e formalismo. Gesù è colui che risveglia, mette in movimento, mette in contatto ciascuno con il proprio desiderio. Ogni azione di Gesù è tesa a liberare il desiderio, a riattivarlo. [continua]

Libri su Gesù (e sull'ebraicità di Gesù)

lunedì 20 gennaio 2025

Dioniso sopravvive nei secoli: l'avventurosa storia delle Baccanti

Le Baccanti hanno una storia abbastanza turbolenta, che rispecchia perfettamente il carattere magmatico e problematico del loro contenuto e del dio che ne è protagonista: Dioniso. 

Il testo

Tessalonica, intorno al 1310. Nel loro scriptorium, Demetrio Triclinio e il fratello Nicola si alternano nel difficile e paziente lavoro di copiatura di un manoscritto. Verso dopo verso, parola dopo parola, le pagine del voluminoso codice si riempiono delle voci mute di Antigone ed Edipo, di Prometeo e Atossa, di Medea e Penteo. Sei tragedie di Sofocle, tre di Eschilo — la cosiddetta triade bizantina — molto Euripide (ma non tutto quello che vorremmo!), e, in particolare, circa 700 versi della tragedia più controversa del poeta ateniese: le Baccanti. Manca però una parte consistente della tragedia. Questa interruzione non è dovuta a una mutilazione del manoscritto, bensì a una scelta deliberata del suo redattore, che ha lasciato in bianco la parte finale.

 



Il manoscritto laurenziano:  Laur. Plut. 32.9.

Il lavoro del copista era un'attività complessa e impegnativa, che richiedeva non solo abilità manuali ma anche una profonda conoscenza dei testi e delle tecniche di produzione del libro manoscritto. Lunghe giornate seduto al tavolo da lavoro, con la mano destra stretta attorno al calamo. Lunga e meticolosa era la preparazione: la pergamena, ad esempio, poteva presentare imperfezioni che facevano disperare il copista, talvolta costringendolo a rinunciare a intere porzioni di pagina. Prima della scrittura bisognava fare la rigatura, tracciare linee orizzontali e verticali sulla pergamena con strumenti appositi. La copiatura vera e propria era poi un processo che richiedeva grande concentrazione, con difficoltà come cattive rilegature del modello, lacune nel testo o errori pregressi che potevano costringere il copista a cancellare, trasporre o riscrivere intere sequenze di versi. Gli errori erano frequenti, e i margini del manoscritto spesso si riempivano di note, correzioni o versi mancanti.

La suddivisione del lavoro poteva avvenire in vari modi: i copisti si dividevano il modello per fascicoli o si alternavano nella copiatura. Le sottoscrizioni finali, con formule di umiltà o richieste di preghiera, ci offrono uno sguardo sulla personalità di questi artigiani del testo. Non era una semplice riproduzione meccanica: i copisti intervenivano sul testo, migliorandolo o interpretandolo. Alcuni, come Massimo Planude, si occupavano anche della revisione e della creazione di paratesti, segnalando i propri interventi con la notazione ἐμὸς στίχος.

I 700 versi delle Baccanti

Ma su cosa stavano lavorando i fratelli Triclinio? E da dove copiavano le Baccanti? Probabilmente da un libro prezioso, vergato da Eustazio, vescovo di Tessalonica più di un secolo prima, che includeva una selezione scolastica di tragedie di Euripide — la cosiddetta “serie alfabetica”. Tuttavia, in quella selezione non figuravano le Baccanti. Demetrio potrebbe aver avuto accesso a un manoscritto più antico, risalente alla serie alfabetica completa di Euripide, dove ogni tragedia era scritta su un rotolo di papiro e custodita in gruppi di cinque in appositi contenitori. In questo contesto, le Baccanti potrebbero essere state incluse sotto il nome Bákkhai o Pentheus.

Demetrio copia dunque i 700 versi disponibili e confeziona il suo codice. Pochi anni dopo, il manoscritto si trova nelle mani di Barlaam di Seminara, monaco calabrese e diplomatico, che nel 1339 lo porta in Italia. Ad Avignone, Barlaam incontra Francesco Petrarca, che forse ebbe il libro tra le mani e tentò invano di imparare il greco. Più fortuna ebbe Boccaccio, primo poeta italiano a conoscere questa lingua. Quando Barlaam torna in Calabria, come vescovo di Gerace, il codice passa a Simone Atumano, suo successore, che lo arricchisce con glosse e scolii.

 



La riscoperta della tragedia in Occidente: mappa


Dalla Grecia all'Italia: un manoscritto in viaggio

Il codice approda infine nella biblioteca di Niccolò Niccoli, umanista fiorentino ossessionato dalla ricerca di manoscritti antichi. Dopo la sua morte, passa al convento di San Marco e viene consultato anche da Giano Lascaris, che lo utilizza per un’edizione delle tragedie di Euripide. Nonostante il manoscritto non sia mai appartenuto ai Medici, il Poliziano potrebbe averlo avuto in consultazione 

Ma nel frattempo, in che condizioni è il nostro libro? Sballottato da una parte all’altra del Mediterraneo? Su e giù per l’Italia? Prestato, letto, ereditato? La manipolazione frequente poteva causare usura, strappi e perdita di frammenti di pergamena o carta. Le cattive rilegature potevano danneggiare i fogli, causando la perdita di parti di testo o disallineamento delle pagine. I trasporti e gli spostamenti dei manoscritti potevano causare danni fisici, soprattutto nel caso di codici non adeguatamente protetti. La pergamena, sebbene resistente, era un materiale che poteva deteriorarsi a causa di umidità, muffa o usura. In alcuni casi, i manoscritti di lusso erano realizzati con pergamena tinta di porpora, un materiale pregiato ma non immune al deterioramento. La carta, introdotta più tardi, era un materiale meno costoso ma anche meno resistente della pergamena. Poteva essere facilmente danneggiata dall'umidità, dagli insetti o dalla manipolazione. L'umidità era uno dei principali nemici dei manoscritti, causando la formazione di muffe e il deterioramento dell'inchiostro e del supporto. Ma anche le alte temperature e gli sbalzi di temperatura potevano danneggiare la pergamena e l'inchiostro, causando secchezza, screpolature e sbiadimento dei colori. La luce, soprattutto quella solare diretta, poteva causare lo sbiadimento dell'inchiostro e lo scolorimento della pergamena. Ma anche le cancellature e le correzioni ripetute potevano indebolire la pergamena e rendere difficile la lettura del testo. L'inchiostro, se non di buona qualità, poteva corrodere la pergamena o sbiadire nel tempo.

La perdita di fascicoli o di intere sezioni di manoscritto poteva causare lacune e la perdita di parti importanti del testo. Il nostro libro pare che ad un certo punto venisse smembrato in due parti: Teocrito fu staccato e assemblato con altri materiali.

Per salvarlo dalla distruzione, o per facilitare la consultazione, ben presto del nostro libro si fecero diverse copie:

Almeno due codici Riccardiani e una copia commissionata da Lascaris ad Aristobulo Apostolis ne sono la prova.

Anche Francesco Filelfo ne trasse una copia nel 1472.

Infine, il codice serve da base per l’edizione aldina curata da Marco Musuro, dove le Baccanti compaiono in forma integrale.

Da dove proviene il testo completo?  E in questa le Baccanti sono complete! Da dove origina la presenza delle Baccanti nel loro testo integrale? 

La presenza delle Baccanti in forma integrale nelle edizioni a stampa pone l'interrogativo sulla fonte utilizzata per completare il testo mancante. Potrebbe trattarsi di un modello tricliniano "deperditus", ovvero andato perduto. L’unico altro manoscritto che contiene i versi finali delle Baccanti è Il Vaticano Palatino greco 287, anche questo vergato nello scriptorium del Triclinio una delle due parti di un manoscritto smembrato (l’altra parte la possediamo, per fortuna!). Insieme, questi due manoscritti costituiscono un importante testimone per le tragedie di Euripide, in particolare per la cosiddetta "serie alfabetica". Nelle edizioni moderne, i due codici sono indicati con la sigla P. 

Ma non sembra sia questa la fonte dell’edizione aldina…




domenica 19 gennaio 2025

Tre libri su Dioniso

Dioniso è tra le divinità più complesse e sfuggenti del mondo antico. Dio dell’ebbrezza e della follia, ma anche della rinascita e del teatro, la sua figura ha attraversato i secoli trasformandosi continuamente. Per accostarsi al dionisismo antico e alla sua ricezione moderna, ecco tre libri, che offrono prospettive diverse, ma complementari, su questo dio ibrido, capace di dissolvere i confini tra umano e divino, tra ordine e caos: Il dio ibrido di Massimo Fusillo, Dioniso. Mito e culto di Walter F. Otto ed Estasi e terrore di Daniel Mendelsohn.



1. Nel suo Il dio ibrido, Massimo Fusillo esplora la natura liminale di Dioniso, divinità che sovverte le categorie fisse della cultura greca. Dioniso è uomo e animale, maschio e femmina, divino e umano: la sua essenza è l’ibridismo. Fusillo analizza la presenza dionisiaca non solo nei testi antichi, ma anche nelle arti visive e nella letteratura moderna, mostrando come il dio continui a essere una potente metafora della trasformazione e della fluidità identitaria. La sua lettura si sofferma anche sulla dimensione del teatro, ricollegando Dioniso alla mimesis e alla performance, aspetti centrali del suo culto e della sua ricezione culturale.



2. Walter F. Otto, nel suo classico Dioniso, restituisce la divinità alla sua dimensione religiosa e mistica. Lungi dall’essere un semplice dio del vino e dell’eccesso, Dioniso è per Otto una figura profondamente sacra, legata alla natura ciclica della vita e della morte. Il suo culto, con i rituali orgiastici e le iniziazioni misteriche, non è solo una celebrazione sfrenata, ma un’esperienza di trascendenza che permette all’individuo di superare i limiti dell’esistenza ordinaria. Otto legge Dioniso come una forza primordiale che si oppone all’ordine apollineo, un dio che sfida e al tempo stesso rinnova l’equilibrio cosmico.


3. In Estasi e terrore, Daniel Mendelsohn sposta invece lo sguardo sulla ricezione contemporanea di Dioniso, in particolare attraverso il teatro e la letteratura. Attraverso la sua prosa raffinata e personale, Mendelsohn analizza come le tragedie greche, in particolare le Baccanti di Euripide, continuino a interrogare il nostro presente. Dioniso, con la sua capacità di sovvertire il potere e i ruoli sociali, diventa una chiave per comprendere il rapporto tra arte, politica e identità. L’estasi dionisiaca è al tempo stesso liberazione e minaccia, una forza capace di trasformare, ma anche di distruggere.


I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multi...