venerdì 28 marzo 2025

Globalizzazioni antiche: l'età del Bronzo


Riproduzione dei rilievi, in parte perduti, che rievocano la spedizione della regina egizia Hatshepsut nella terra di Punt (parete del portico sito sulla parte sinistra della seconda terrazza del tempio di Deir el-Bahari): la famiglia reale di Punt seguita da un corteo accoglie gli inviati egizi


Negli ultimi decenni le scoperte archeologiche hanno avuto - sulla storia antica - lo stesso effetto rivoluzionario che i telescopi di nuova generazione, da Hubble a Euclid, hanno avuto sull'astronomia. È di molto aumentata la nostra capacità di vedere, non nello spazio, ma indietro nel tempo. 

Nell'età del Bronzo, precisamente. 

Un periodo lunghissimo, di almeno un millennio, lo stesso che ci separa dalla fine dell'Alto Medioevo! Gli ultimi tre secoli (XV-XII sec. a.C.) in particolare - cioè il Tardo Bronzo - hanno visto il raggiungimento di un altissimo livello di interconnessione (una globalizzazione!) prima; e un collasso dei sistemi, poi.

Dal collasso del mondo globale del Tardo Bronzo sono emerse alcune delle idee e pratiche che tuttora usiamo: la scrittura alfabetica, l'iniziativa economica individuale, le città. Prima, e per un millennio abbondante, un altro tipo di scrittura, un'economia centralizzata e fondata sui 'palazzi'. 

Ma torniamo a prima del collasso. Quello che le ricerche archeologiche sono state in grado di dirci sul mondo globalizzato del Tardo Bronzo è veramente sorprendente! 

Gli archivi di Mari, un sito sul lato occidentale del fiume Eufrate, nell'odierna Siria documentano scambi commerciali fra regioni anche molto lontane del Mediterraneo orientale: dall'Egitto, da Creta, arrivavano in Mesopotamia stoffe, tessuti, armi, gioielli, scarpe. A Creta, gli scavatori dei palazzi minoici hanno trovato oggetti personali appartenuti a re hyksos (il popolo che aveva invaso e sottomesso per un certo tempo l'Egitto), anfore cananee, sigilli cilindrici mesopotamici. Negli affreschi delle tombe egizie si trovano effigiati (riconoscibili dall'abbigliamento) Minoici che portano doni ad alti funzionari egizi; ma sono documentate nei documenti egiziani anche spedizioni dall'Egitto verso regioni più o meno note: la terra di Punt, la terra di Isy, Canaan, il Sinai. Alla ricerca di rame, turchesi, legno da costruzione, zanne d'avorio. E in Anatolia (attuale Turchia) a 200 km da Ankara è stata di recente trovata una spada micenea, con iscrizione in accadico (il linguaggio diplomatico dell'Età del Bronzo) dedicata da un re ittita che aveva sedato una rivolta. 

Questi dati ci dicono che nel XV e XIV secolo a.C. vi erano intensi scambi fra mondo egeo, Creta, Egitto, Mesopotamia, Anatolia: missioni diplomatiche, viaggi di mercanti, scambi di lettere, trattati di pace, matrimoni e inviti fra dinasti. Nell'archivio di Amarna, scoperto nel 1887 in Egitto e contenente la corrispondenza di Amenofi III, troviamo le lettere di accompagnamento di queste spedizioni: "per mezzo della presente, ti mando 1 carro, 2 cavalli, 1 servitore maschio etcc..."  - dice per esempio Amenofi III a Tushratta, re di Mitanni. Queste liste arrivavano fino a 300 righe di 'doni' che un re mandava ad un altro, insieme a personale specializzato: artisti, scribi, funzionari, perfino figlie date in sposa. A volte le merci inviate si perdevano, venivano rubate durante il cammino o si rivelavano false come lamenta il re Burna-Buriash, cassita di Babilonia, di un carico di oro mandatogli da Akhenaton, faraone egiziano. 

Una regina d'Egitto chiede persino, per lettera, al re ittita Suppiluliuma di darle un figlio come sposo, essendo rimasta vedova. Il re, dopo alcuni tergiversamenti, manda suo figlio: Zannanza. Ma durante il viaggio per l'Egitto, in un'imboscata, Zannanza muore e il re Suppiluliuma non esita a gridare al complotto ordito ai suoi danni dall'Egitto!

Le fonti citate fin qui erano note da tempo, almeno da fine '800. 

Per il XIII secolo disponiamo invece di fonti nuove: negli anni '80 è stato trovato il relitto di una nave che risale addirittura al 1300 a.C.: la nave di Uluburun: trasportava vetro grezzo, anfore per lo stoccaggio di orzo, resina, spezie, stagno e rame grezzi, veleggiando da est a ovest. Era una nave lunga 15 metri, in legni di cedro del Libano, inabissatasi a 40 metri di profondità. Le merci che trasportava, recuperate grazie agli enormi progressi dell'archeologia subacquea, provenivano da almeno 7 regioni diverse e il suo equipaggio - a giudicare dai piccoli oggetti personali recuperati - era in parte miceneo. Altri relitti sono stati trovati e studiati negli anni '90: il relitto di Punta Iria, lungo la costa dell'Argolide che risale al 1200 a.C. e il relitto di Kumulka scoperto nel 2018 nella stessa zona della nave di Uluburun, che risale addirittura al XVI-XV secolo. 

Nuove parti di siti archeologici già conosciuti - come Ugarit - sono poi state scavate e i materiali pubblicati dagli anni '90 e fino al 2016, come la "casa di Urtenu" a Ugarit e il suo ricco archivio di lettere inviate dal re di Ugarit ai re di Assiria, Egitto, Karkemish, Sidone, Hattusha. Un tale Zu-Astarti scrive per esempio di varie traversie subite durante un viaggio per mare relativo ad un commercio di cavalli, che non era certo fossero stati ricevuti dal destinatario. 

Un'altra però, mandata dall'ultimo re di Ugarit, Ammurapi, al vicerè ittita a Karkemish, ha tutt'altro tono! Ugarit è seriamente minacciata da imprecisati nemici! Sono urgenti rinforzi e aiuti militari!

Sappiamo che la lettera o non fu inviata affatto o non fu inviata in tempo, perché Ugarit, come molti altri centri e capitali del Tardo Bronzo fu distrutta. Nel giro di pochi decenni, la società del Tardo Bronzo collassò in quella che Eric H. Cline, nel suo libro 1177 a.C. Il collasso della civiltàdefinisce "una tempesta perfetta di calamità": terremoti (molti siti mostrano lunghi muri fuori asse e colonne rovesciate che giacciono parallele); invasioni  e/o rivolte intestine (segni di incendi e punte di frecce); malattie e carestie, megasiccità (provata dalle recenti ricerche sui paleoclimi). Nessuno di questi elementi, da solo, avrebbe potuto causare una crisi dalle dimensioni spaventose come quella che annientò Minoici, Micenei, Ittiti e costrinse a riorganizzarsi Assiri, Cananei, Egizi con modelli di insediamento diverso ed economie locali.

L'effetto congiunto di questa serie impressionante di calamità provocò il crollo dei commerci internazionali, il collasso dell'organizzazione amministrativa centralizzata, la scomparsa della classe dirigente tradizionale, il collasso dell'economia di scambio, l'abbandono di insediamenti e il declinio demografico. La situazione che si verificò è stata spiegata dagli studiosi con il concetto di "collasso di sistemi": una serie di reazioni a catena che amplificano il potenziale distruttivo dei singoli elementi di crisi - magari inaspettati e imprevedibili - "cigni neri" - e causa una riduzione improvvisa e significativa della complessità sociopolitica del sistema.

Il collasso dei sistemi complessi che avevano dominato il Vicino Oriente e il Mediterraneo orientale durante l’Età del Bronzo fu un evento determinante nella storia delle civiltà antiche. Questo fenomeno segnò la fine di un'epoca durata oltre un millennio, caratterizzata da reti commerciali interconnesse, strutture politiche centralizzate e modelli economici sofisticati.

La teoria della complessità offre un quadro interpretativo efficace per comprendere le dinamiche di questo collasso. L’interdipendenza tra economia, politica e commercio creò un equilibrio dinamico altamente sensibile a shock esterni e a processi interni di instabilità. Una volta compromesso questo equilibrio, si innescò un effetto domino che portò al crollo dell’intero sistema. Il collasso dell’economia di scambio, elemento cardine di questo equilibrio, determinò la crisi delle ambascerie reali, il crollo delle reti di approvvigionamento e la disintegrazione delle corrispondenze diplomatiche, aggravando il processo di frammentazione politica e sociale. 

La complessità delle società del Tardo Bronzo sarebbe dunque un predittore della crisi; mentre il loro grado differente di flessibilità e ridondanza sistemica avrebbe protetto alcune dagli eventi devastanti del crollo e determinato invece l'impossibilità di risollevarsi per altre. 

Le dinamiche di collasso osservate nel Tardo Bronzo non appartengono solo al passato: cicli simili sono documentabili in molte altre epoche, a scala più o meno ridotta. Anche le società contemporanee dipendono da sistemi complessi e interconnessi, vulnerabili a shock improvvisi e a processi di destabilizzazione endogena. Le crisi economiche globali, i cambiamenti climatici e le tensioni geopolitiche dimostrano come l’interdipendenza possa trasformarsi in fragilità. 

Comprendere il crollo delle civiltà del Tardo Bronzo attraverso strumenti come la teoria dei sistemi potenzia la nostra capacità di analizzare i rischi del presente e le strategie di resilienza necessarie a evitare il ripetersi di dinamiche distruttive.


domenica 16 marzo 2025

L’illusione dell’ordine e le fratture dalla storia: Polibio e Roma (osservazioni sparse)

Dal Peloponneso a Roma: l'itinerario di Polibio (nello spazio e nel tempo)


Leggere Polibio - lo storico greco che per primo ha pensato storicamente Roma - è difficile. A tratti è pedante, spesso puntiglioso, ha un altissimo concetto di sé, scrive volutamente in modo complicato. 

Tuttavia la sua vicenda biografica e politica, prima ancora che l'esisto delle sue ricerche storiche, è di grandissima rilevanza. Egli nacque in un mondo - il mondo ellenistico degli eterni contrasti fra le poleis greche e la Macedonia - e morì in un mondo totalmente diverso, in cui Roma era padrona dei destini del mondo, ma al cui interno si apriva la prima crepa della crisi con la seditio graccana. 

Cercò di capire questa imprevista evoluzione della storia, questo straordinario intrecciarsi degli eventi, con gli strumenti teorici di cui disponeva (non pochi!): la teoria delle costituzioni, l'idea biografico/organicistica di nascita, akmè e declinio degli stati; la ricerca delle cause profonde degli eventi, l'incidenza del caso sugli eventi umani.

Fu testimone - da un punto di osservazione privilegiato di politico di spicco e di mentore del figlio di Lucio Emilio Paolo, il celebre Emiliano osannato da Cicerone nel De republica - del consolidamento della supremazia romana nel Mediterraneo, prima; e della conquista e sottomissione della Grecia poi. E fece in tempo a vedere addensarsi enormi minacce sulla pax romana, che tanto era costata alla sua gente, gli Achei. 

Si interrogò su come una città-stato fosse riuscita a costruire un impero globale in pochi decenni. 

Sentendosi un continuatore di Tucidide cercò di individuare le cause profonde del successo romano, formulando un modello teorico che avrebbe influenzato il pensiero politico per secoli. La forma di governo di Roma, secondo Polibio, è la chiave del suo successo: un sistema misto e in perfetto equilibrio che combina gli elementi positivi di ciascuno dei regimi individuati e descritti da Aristotele (monarchia, aristocrazia, democrazia e le loro degenerazioni). Il Senato garantisce la stabilità aristocratica, i consoli esercitano il potere esecutivo e i comizi popolari danno voce alla cittadinanza. Questo modello, secondo Polibio, è ciò che ha permesso a Roma di superare le crisi che avevano distrutto le altre grandi potenze del passato. Gli storici moderni preferiscono, ovviamente, altre risposte. 

Ma il problema dell'imperialismo romano rimane in gran parte opaco: perché Roma si impegnò in una serie di guerre che misero a dura prova le sue capacità di governo?

All'espansione che l'equilibrata costituzione di Roma ha consentito sul piano storico - delle res gestae - corrisponde (è questa è l'altra intuizione/riflessione di Polibio) la possibilità di una storia 'universale' sul piano storiografico - dell'historia rerum gestarum. L'ingresso di Roma sulla scena politica consente di superare la frammentazione del racconto storico in tante narrazioni locali: Roma è ora il filo conduttore di tutte le narrazioni. L’unificazione del Mediterraneo sotto il dominio romano rende possibile, secondo Polibio, una storia globale, in cui gli eventi non possono più essere compresi isolatamente ma devono essere inseriti in un quadro d’insieme. Già era accaduto in passato: altri si erano fatti storici di potenze egemoni e ne avevano seguito l'ascesa e il dominio; ma nessuna di queste potenze aveva dominato su un territorio tanto vasto. 

E tuttavia resta un problema.  

Proprio mentre il sistema romano sembra aver raggiunto il suo apice con la distruzione di Cartagine e Corinto nel 146 a.C., emergono le prime crepe che ne metteranno alla prova la tenuta. La guerra di Numanzia e la crisi graccana - la plebe di Roma che reclama diritti politici e riforme - mostrano che l’egemonia non garantisce automaticamente la stabilità interna. Se il successo romano era stato costruito sulla coesione tra istituzioni e virtù civica, la crescita del potere porta ora a tensioni che la struttura politica non riesce più a controllare. Polibio aveva visto nella razionalità del sistema misto la chiave della stabilità, ma la storia si muove secondo logiche più complesse, in cui le trasformazioni economiche, sociali e militari possono rimettere in discussione anche gli assetti più solidi.

Dunque l'uomo romano, di cui l'Emiliano è per Polibio il prototipo, non è "l'ultimo uomo" (per riprendere una celebre espressione recente da The End of History and the Last Man 1992) e la pax romana non è la fine della storia. 

Facciamo un salto in avanti, alla ricerca di analogie. Dopo la fine della Guerra Fredda, l’egemonia americana sembrava aver segnato la fine della storia, come ipotizzato da Fukuyama. Il liberalismo democratico e il capitalismo globale sembrano l’equivalente moderno del sistema misto romano: un modello capace di garantire stabilità, progresso e ordine internazionale. 

Tuttavia, come Roma dopo il 146 a.C., anche il mondo post-1989 ha visto emergere nuove tensioni. Il declino del consenso interno nelle democrazie occidentali, la crescente competizione con potenze come la Cina, la crisi economica e la trasformazione del lavoro mettono in discussione la capacità del sistema attuale di mantenere il suo equilibrio. Le narrazioni di stabilità che hanno accompagnato gli ultimi decenni lasciano spazio all’incertezza e in cui la storia riprende il suo corso, mostrando che nessun sistema è immune dal cambiamento. 

Le crisi - come la seditio graccana - vengono spesso dal centro del potere, non dalle periferie. Se guardiamo agli anni '20 del nostro secolo (dalla pandemia a Trump), possiamo chiederci se ci troviamo di fronte a un momento analogo al decennio 146-133, in cui un modello consolidato viene messo alla prova da eventi interni e internazionali. L’ordine globale post-Guerra Fredda, dominato dagli Stati Uniti, mostra segnali di crisi: il conflitto in Ucraina, il riassetto dell’economia mondiale con il rafforzamento della Cina, le tensioni nel Medio Oriente e i cambiamenti nella politica americana segnalano un’instabilità che ricorda quella di Roma dopo il 146 a.C. Anche l’aspetto interno è rilevante: la democrazia americana, costruita su un equilibrio istituzionale che ha garantito decenni di stabilità, è oggi segnata da fratture politiche e sociali profonde, con un confronto tra modelli politici opposti, come avvenne nella Roma dei Gracchi.

Un confronto tra questi due momenti potrebbe dunque svilupparsi attorno a tre assi:

  1. Il paradosso dell’egemonia – Roma nel 146 a.C. e gli Stati Uniti nel 2025 si trovano in una condizione in cui il loro predominio sembra assicurato, ma proprio questo successo genera tensioni e nuove sfide che mettono in discussione la loro capacità di mantenere l’ordine.
  2. L’emergere di nuove forze centrifughe – La crisi del consenso interno, in entrambi i casi, porta a conflitti sociali e politici: a Roma con la riforma graccana, oggi con la polarizzazione tra progressisti e conservatori negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali.
  3. L’incertezza sul futuro dell’ordine politico – Per Polibio, il sistema romano sembrava immune al declino perché fondato su un equilibrio tra le diverse componenti della società. Tuttavia, la realtà storica mostrò che nessun assetto è definitivo. Allo stesso modo, la struttura istituzionale americana, pur solida, è oggi messa alla prova da dinamiche globali e interne che potrebbero modificarne profondamente il funzionamento.

L’analogia tra il 146 a.C. e il 2025 non è perfetta, ma suggerisce una riflessione più ampia sulla natura delle transizioni storiche e sulle illusioni di stabilità che spesso accompagnano le fasi di massimo potere di una civiltà. Polibio riteneva che l’espansione di Roma fosse il risultato di un modello di governo superiore, ma la crescita dell’impero generò squilibri che misero a rischio la stabilità della Repubblica. Fukuyama immaginava che la democrazia liberale, una volta affermatasi come sistema dominante, avrebbe garantito ordine e prosperità, ma la realtà ha mostrato che il consenso attorno a questo modello è tutt’altro che definitivo.

Sappiamo che la crisi aperta dai Gracchi - la fine di un periodo che verrà idealizzato e celebrato da Cicerone - sarà in parte riassorbita, in parte no fino a confluire nella più grande crisi delle guerre civili, dalle quali Roma emerge con nuove istituzioni di fatto (il Principato) anche se non de iure

Le crisi superate ci insegnano molte cose, quasi quanto i collassi repentini.

Joseph Tainter, nel suo studio sul collasso delle civiltà (The Collapse of Complex Societies, 1988), sostiene che le civiltà collassano quando la complessità crescente del sistema diventa insostenibile, portando a un crollo rapido delle strutture istituzionali ed economiche. Tuttavia, non tutti i sistemi entrano in una fase di collasso; spesso, invece, si trasformano attraverso una serie di crisi che conducono a nuove configurazioni politiche ed economiche.

Nel caso di Roma, la crisi avviata dai Gracchi e dalle guerre civili non portò a un crollo immediato, ma a una transizione verso il Principato, una riorganizzazione del potere che garantì continuità, pur alterando profondamente la natura del sistema politico. Oggi, tra i fattori che potrebbero portare a una transizione o a una crisi sistemica vi sono:

  • polarizzazione interna nelle democrazie occidentali, che mina la stabilità istituzionale e la capacità di leadership globale degli Stati Uniti.
  • Ridefinizione delle sfere di influenza, con l’ascesa di potenze come la Cina e l’India, che sfidano il sistema geopolitico dominato dall’Occidente.
  • Crisi ambientali ed economiche, che potrebbero aggravare le tensioni politiche e sociali, come già accaduto in altre fasi storiche di cambiamento sistemico.

Secondo la teoria della resilienza dei sistemi complessi, un ordine politico può adattarsi ai cambiamenti attraverso riforme e nuove strategie di governance, oppure può entrare in una fase di collasso se le tensioni superano la capacità di adattamento del sistema. Alcuni fattori possono contribuire alla resilienza del sistema, consentendo una transizione controllata invece di un collasso improvviso. 

La resilienza di un sistema politico dipende dalla capacità di adattarsi senza subire un collasso improvviso. La Repubblica non riuscì a riformarsi in tempo utile, degenerando nelle guerre civili e nel Principato, ma il sistema politico non scomparve: si riorganizzò in una nuova forma. Anche l’economia gioca un ruolo decisivo: Roma vide un aumento delle disuguaglianze che alimentò tensioni interne, come accade oggi con la polarizzazione economica e le transizioni tecnologiche. Ma non sono da sottovalutare le narrazioni che legittimano l’esistenza degli stati: la Repubblica si fondava sulla partecipazione delle élite e sulla disciplina civica, ma una nuova narrazione accompagnò l'ascesa di leader carismatici come Mario e Cesare e poi Ottaviano Augusto. 

Si torna pertanto al racconto dei fatti. 

giovedì 13 marzo 2025

Parole per dirlo: la politica

 

I ceramografi attici rappresentavano le parole con le lettere che uscivano dalla bocca dei parlanti in ordine di pronuncia   

Il lessico non è soltanto uno strumento di comunicazione, ma anche una chiave di accesso alla cultura, al pensiero e alla visione del mondo di una società. Le parole non si limitano a designare oggetti o azioni, ma incorporano stratificazioni di significati, riflessi di concezioni religiose, filosofiche e scientifiche.

Comprendere il lessico di una cultura significa dunque entrare nel suo sistema di pensiero, nei suoi schemi interpretativi, nelle sue priorità concettuali.

Questa rubrica si propone di esplorare il significato profondo delle parole, di indagarne le sfumature e il ruolo che esse hanno avuto nel plasmare idee e narrazioni. Perché conoscere le parole significa comprendere il modo in cui, nel tempo, abbiamo dato senso alla realtà.


Oggi ci riesce molto difficile comprendere l'importanza che la politica aveva nel mondo antico. Anzi, già quando identifichiamo una sfera della 'politica', delle azioni politiche, nel flusso continuo della realtà, facciamo qualcosa di non scontato per i greci di età arcaica e classica. Per i quali, se di buona famiglia e possidenti, la politica non era un'alternativa, una scelta, ma la dimensione fondamentale dell'esistenza. Il cittadino - per usare un'espressione dello storico Carmine Ampolo - era "un azionista della polis".

Lo testimonia un frammento bellissimo del poeta Alceo, (fr. 130LP) aristocratico di Lesbo, costretto all'esilio per motivi di lotta politica, che si lamenta di condurre un vita insulsa ("rustica") senza poter partecipare all'assemblea (agorà) e al Consiglio (boulè), con gli altri cittadini (politai), come ha fatto suo padre e suo nonno prima di lui.

Eccone un pezzo:

(...) ὀ τάλαις ἔγω
ζώω μοῖραν ἔχων ἀγροϊωτίκαν
ἰμέρρων ἀγόρας ἄκουσαι
καρ̣υ̣[ζο]μένας ὦγεσιλαΐδα
20 καὶ β̣[ό]λ̣λ̣ας· τὰ πάτηρ καὶ πάτερος πάτηρ
κα..[.].ηρας ἔχοντες πεδὰ τωνδέων
τὼν [ἀ]λλαλοκάκων πολίτ̣αν
ἔ.[..ἀ]πὺ τούτων ἀπελήλαμαι


Sopportando, misero me, sconosciuti modi di vita
sopravvivo in rustica condizione
bramando di ascoltare l'assemblea
convocata dagli araldi, o figlio di Agesilao,
e il Consiglio, partecipando ai quali mio padre e il padre
di mio padre invecchiarono, in compagnia di questi
cittadini che si danneggiano a vicenda,
ma io sono al bando da tutto questo (...)

Si è rifugiato in un santuario, come un lupo nella macchia, dove si svolgono riti e feste femminili e da lì, manda - con 'carme affidato' (all'amico Agesilaida) - il suo contributo poetico a un simposio al quale non potrà presenziare.

Ecco alcune delle parole greche della politica più rilevanti:

venerdì 7 marzo 2025

Parlare di Aspasia: una prova estenuante



Aspasia di Mileto è considerata una delle figure più affascinanti e complesse dell'Atene del V secolo a.C. La sua vita e la sua carriera sono presentate dalle fonti antiche e moderne come circondate da un alone di mistero, che ha alimentato secoli di interpretazioni contrastanti e dibattiti. Filosofa, retore, ma anche amante di Pericle, figura di spicco nella politica ateniese, Aspasia è una figura su cui si è attivata una sorta di sforzo di iper-comprensione e, nonostante le fonti frammentarie che la riguardano, è rappresentata come un esempio di come la società dell'antica Grecia – patriarcale e maschilista – fosse incapace di confrontarsi con una donna con idee e valori (che per il fatto stesso di esistere diventano idee "fuori dai canoni tradizionali").

Aspasia viene spesso descritta come una donna eccezionale, in grado di influenzare la politica e la cultura ateniese, senza appartenere all'élite dei cittadini ateniesi, ma godendo di un’influenza che va ben oltre i limiti sociali e di genere del suo tempo. Viene associata, innanzitutto, alla figura di Pericle, ma la sua presenza va ben oltre quella di una semplice compagna. È famosa per la sua (necessariamente) frustrata capacità oratoria e per il suo insegnamento della retorica, che avrebbe attratto molti degli uomini più influenti di Atene, tra cui Alcibiade, Socrate e, naturalmente, Pericle stesso. La sua intelligenza e la sua capacità di influenzare le decisioni politiche sembrano emergere come i tratti distintivi della sua figura, accanto al suo ruolo di amante e di “compagna”.

Ciò che è particolarmente interessante nel cercare di fare una riflessione su Aspasia - ieri e oggi - è la difficoltà di parlare di una filosofa e maestra di retorica senza cadere in giudizi moralistici o, al contrario, nell’enfasi, modi opposti per sminuirne la complessità. Le fonti storiche su di lei sono per lo più indeterminate e spesso frammentarie, scritte da autori che la descrivono secondo criteri di 'moralità', ma anche con una certa ammirazione per la sua intelligenza. Da un lato, questa situazione ha favorito un’immagine di Aspasia come una donna di grande potere e influenza, simbolo di una figura femminile che sfida i limiti imposti dalla società. Dall'altro, però, alcuni resoconti dell'epoca insistono con un gusto particolare sulle sue presunte inclinazioni morali, creando un quadro volutamente ambivalente che oscilla tra il giudizio positivo e quello negativo. 

Era intelligente, ma...

La tradizione di lettura, tanto antica quanto contemporanea, spesso ricade in questa polarizzazione. Le donne che emergono in campi intellettuali e politici, come la filosofia e la retorica, sono frequentemente rappresentate come eccezioni straordinarie, e questo le fa sembrare quasi delle 'figure mitiche', o viceversa come emblemi di 'trasgressione', o addirittura pericolose. Aspasia non fa eccezione. Si corre il rischio di enfatizzare eccessivamente il suo ruolo, presentandola come una pioniera della femminilità intellettuale, o di ridurla a una figura di intrigo, iper-sessualizzata, nell'incapacità di costruire una visione oggettiva e equilibrata.

Il moralismo che per secoli ha caratterizzato la lettura delle figure femminili nel pensiero e nella cultura occidentale si manifesta pesantemente nella storia di Aspasia. La sua capacità di influenzare la politica e la retorica si colora di un segno diverso rispetto alle analoghe capacità dei personaggi maschili, per i quali è assolutamente normale rivestire un ruolo di primo piano nella vita politica della polis: diventa "misteriosa, "ambigua", "incomprensibile" e più per i moderni che per gli antichi! Siamo certi che la società ateniese non avesse categorie per comprendere una donna che esercitava un potere intellettuale così rilevante?  O questa difficoltà di interpretazione è più moderna? L'idea che il giudizio su un personaggio della vita politica e culturale debba essere netto - positivo o negativo - vale per tutti? O l'indugiare sull'ambiguo, sul mistero, sull'aneddotico è particolarmente legato alla discussione su figure femminili? 

Questo ci porta a una riflessione metacognitiva su come, quando si parla di donne come Aspasia, sia facile cadere nella trappola di ridurle a icone di (im)moralità o di eroismo. In effetti, le donne intellettuali e politiche del passato, come Aspasia, vengono frequentemente interpretate in modo semplificato, sia attraverso un filtro che le esalta come avanguardiste, sia attraverso quello che le riduce a figure ambigue. Entrambe queste letture, in realtà, non sono altro che risposte ai nostri pregiudizi contemporanei, che non permettono di vedere la loro figura nella sua vera complessità.

La realtà storica è che sappiamo pochissimo di Aspasia, come di molte altre donne che hanno cercato di imporsi nella storia come intellettuali e di  influenzare non solo il pensiero filosofico e politico del loro tempo, ma anche di riconfigurare la sfera privata, attraversando le difficoltà di un contesto che non dava loro alcun diritto di parola. Da cui l'equazione con la prostituzione e l'abiezione morale. 

Aspasia ci offre quindi una lezione importante. La sua vita non si presta a facili conclusioni. Come spesso accade con le figure storiche particolarmente complesse e di cui abbiamo poche informazioni, non è facilmente incasellabile in categorie nette, Aspasia dimostra come sia possibile anche se rischioso per una donna emergere in un contesto maschilista e, attraverso l’intelletto, l’influenza e la retorica, diventare una presenza determinante nella vita politica e culturale.  La sua influenza, le sue doti intellettuali e il suo ruolo nella storia non sono tuttavia né una testimonianza, né un esempio; un rimpianto, forse, di quanto si è perso in termini di conoscenza, cultura e azione politica rinunciando volontariamente a una parte consistente delle risorse dell'umanità.

Ecco le fonti che parlano di Aspasia:

  1. Platone. Nel Menesseno, Platone ironizza sul rapporto tra Aspasia e Pericle, citando Socrate che afferma che Aspasia è stata l'insegnante di molti oratori. Platone attribuisce inoltre ad Aspasia la 'paternità' (maternità!) dell'epitaffio per i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso. Alcuni studiosi ritengono che Platone si sia ispirato ad Aspasia per il personaggio di Diotima nel Simposio.
  2. Plutarco. Nella Vita di Pericle, Plutarco afferma che la casa di Aspasia divenne un centro intellettuale che attrasse scrittori e pensatori noti. Nonostante la sua vita immorale, secondo il biografo, gli amici di Socrate portavano le loro mogli ad ascoltare le conversazioni di Aspasia.
  3. Senofonte. Senofonte accenna ad Aspasia due volte nei suoi scritti socratici: nei Memorabili e nell' Economico, dove Socrate raccomanda la sua consulenza.
  4. Eschine Socratico. Eschine scrisse un dialogo su Aspasia (oggi perduto) in cui la caratterizza in maniera positiva, presentandola come maestra e ispiratrice di eccellenza.
  5. Antistene. Antistene compose un dialogo socratico intitolato Aspasia, sopravvissuto solo in forma frammentaria, in cui la caratterizza negativamente prendendola come esempio negativo di una vita dedita al piacere.
  6. Aristofane, nella commedia Gli Acarnesi afferma (comicamente!) che Aspasia è responsabile della guerra del Peloponneso: il decreto di Megara di Pericle, che escludeva Megara dal commercio con Atene e i suoi alleati, era  una rappresaglia nei confronti dei Megaresi per il rapimento di alcune prostitute dalla casa di Aspasia. 
  7. Arpocrazione. Dal lessico di Arpocrazione derivano notizie su Aspasia, che la definisce esperta nei discorsi e maestra di Pericle.
  8. Luciano, Immagini, XVI attribuisce ad Aspasia l'epiteto di «modello di saggezza» e loda la sua conoscenza e intuizione politica.
  9. Secondo la SudaἈ 4202, Aspasia era «abile per quanto riguarda le parole», una sofista e una maestra di retorica .
Ecco cosa dice Plutarco, Vita di Pericle, 24 e ss: Poiché si pensa che Pericle abbia agito in favore di Aspasia nel conflitto con i Sami, sarebbe opportuno considerare quale fosse l'arte o la forza di questa donna, che conquistò i principali uomini della politica e che offrì ai filosofi non pochi spunti di discussione su di lei. È accertato che era originaria di Mileto, figlia di Assioclo. Si dice che avesse imitato una certa Thargelia, una famosa donna ionica dei tempi antichi, cercando di sedurre gli uomini più influenti. Infatti, Thargelia, famosa per la sua bellezza e il suo fascino accompagnati da grande intelligenza, si unì a numerosi uomini greci, riuscendo a farli avvicinare al re persiano e seminando idee filo-persiane nelle loro città. 
Si afferma che Aspasia fu stimata da Pericle per la sua saggezza e abilità politica. Anche Socrate, a volte, visitava la sua casa con i suoi conoscenti, e gli amici portavano le loro mogli ad ascoltarla, benché non si occupasse di attività decorose o rispettabili, ma educasse le ragazze che volevano diventare etere. Eschine racconta che anche Lisicle, un mercante di pecore, dopo la morte di Pericle, divenne il primo degli Ateniesi grazie alla vicinanza ad Aspasia. Nel 'Menesseno' di Platone si trova, sebbene scritto in tono leggero, che la donna era considerata esperta di retorica e frequentava molti Ateniesi. Tuttavia, l'affetto di Pericle per Aspasia appare piuttosto intenso. 
Pericle aveva una moglie, sua parente, che aveva vissuto prima con Ipponico, da cui aveva avuto Callia il ricco; e da Pericle ebbe Santippo e Paralo. Poiché però la convivenza con la moglie non era soddisfacente, e lei desiderava un altro uomo, fu data in matrimonio a costui, mentre Pericle prese Aspasia, amandola intensamente. Si dice che, uscendo e rientrando dal mercato, la salutasse e la baciasse ogni giorno. Nelle commedie, Aspasia è chiamata anche nuova Onfale, Deianira e infine Era. Cratino la definì apertamente concubina nei suoi versi:

'Anche la Era, Aspasia partorisce e la Vergogna Affronta una concubina con occhi canini.'

Si crede che Pericle abbia avuto un figlio illegittimo con lei, su cui Eupoli ha scritto nei 'Demi', rappresentandolo mentre chiedeva: 'Il mio figlio illegittimo vive ancora?' e Myronide rispondeva: 'Da tempo sarebbe un uomo, se non avesse la maledizione della madre cortigiana.' Si dice che Aspasia sia divenuta così famosa e rinomata che anche Ciro, il quale fece guerra al re per il comando dei Persiani, chiamò Aspasia l'amante che preferiva fra le sue concubine, un tempo nota come Milto. Ella era originaria di Focea, figlia di Ermotimo. Dopo la morte di Ciro in battaglia, venne condotta dal re e raggiunse una grande influenza. 

Narrando ciò che è giunto alla memoria in questa scrittura, è forse disumano rifiutare e ignorare tali vicende.

sabato 1 marzo 2025

La legge del più forte: la vergogna di Melo

 



Nell'estate del 416 a.C., gli Ateniesi intimano agli abitanti di Melo, una piccola isola del mare Egeo, di sottomettersi e di contribuire al mantenimento della flotta della Lega, di cui Atene è egemone e il cui obsoleto scopo era la difesa della Grecia dalla minaccia persiana. I Melii rifiutano, appellandosi alla giustizia e alla protezione degli dei. La risposta ateniese non lascia spazio a illusioni: nel mondo reale, contano solo i rapporti di forza. Lasciare che Melo rimanga neutrale nello scontro fra la Lega ateniese e la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta, sarebbe un segnale di debolezza, un pericoloso precedente che potrebbe ispirare altre città a ribellarsi.

Nonostante l’inferiorità militare, i Melii resistono all’assedio per un intero inverno. Ma quando gli Ateniesi sfondano le difese, la punizione è implacabile: gli uomini vengono sterminati, donne e bambini ridotti in schiavitù, l’isola trasformata in una cleruchia ateniese. Melo diventa così il simbolo della spietatezza dell’imperialismo ateniese e della sua incapacità di tollerare voci discordanti all’interno dell’egemonia che sta costruendo nel mondo greco.

Dal punto di vista stilistico, il dialogo tra Ateniesi e Melii è un unicum nelle Storie di Tucidide. La sua struttura formale, con battute di varia estensione, richiama la sticomitia tragica e i dialoghi platonici, suggerendo che il testo potrebbe essere stato concepito per una recitazione pubblica. Ma il contenuto è tutt’altro che teatrale: il confronto tra i due interlocutori è asimmetrico, un serrato gioco di argomentazioni in cui i Melii si aggrappano a valori come la giustizia, la pietà e la speranza, mentre gli Ateniesi ribattono con un pragmatismo glaciale, sancendo la legge del più forte come unica regola nelle relazioni tra gli stati.

Il dibattito tocca questioni sempre vive per la riflessione politica: il ruolo della giustizia nelle relazioni internazionali, il rapporto tra virtù e fortuna, il dilemma della resistenza di fronte a una forza soverchiante. Gli Ateniesi insistono sul fatto che la giustizia ha senso solo tra pari e che la neutralità dei Melii non è accettabile perché minaccia la stabilità del loro dominio. I Melii, dal canto loro, confidano nell’intervento spartano e nella benevolenza divina, una fiducia che gli Ateniesi liquidano come cieco irrazionalismo.

Uno degli snodi concettuali più affascinanti del dialogo riguarda il tema della vergogna (αἰσχύνη). I Melii tentano di evocare un senso di onore negli Ateniesi, accusandoli di κακότης (malvagità) e δειλία (viltà) se non concederanno loro la libertà. Ma gli Ateniesi ribaltano la prospettiva: non è una questione di ἀνδραγαθία (valore) né di evitare il disonore, ma di sopravvivenza. La vera vergogna, dicono, è affrontare pericoli insensati per salvare l’onore, quando il prezzo da pagare sarà la rovina.

Questa concezione spietata del potere si colloca in un orizzonte intellettuale vicino alla sofistica. L’enfasi sul nesso tra δύναμις (forza) e ἔργον (azione) richiama le teorie di Gorgia sull’efficacia del discorso e il suo potere distruttivo. Gli Ateniesi non si limitano a enunciare la legge del più forte: la costruiscono attraverso un linguaggio che smonta ogni alternativa etica o religiosa, trasformando la necessità politica in destino ineluttabile.

Tucidide non prende posizione esplicita nel dibattito, ma lascia che siano le parole e le azioni a parlare. La lucidità analitica degli Ateniesi li rende figure di straordinaria modernità, capaci di una lettura realistica delle dinamiche del potere. Ma il prezzo della loro razionalità è una totale disillusione sulla natura umana e sulla possibilità di un ordine politico fondato su principi diversi dalla forza. Quando, alla fine del dialogo, gli Ateniesi passano dalle parole ai fatti e radono al suolo la città, l’impressione è che Tucidide ci lasci con una domanda sospesa: l’imperialismo, per quanto inevitabile, può mai essere giustificato?

I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multi...