![]() |
Dal Peloponneso a Roma: l'itinerario di Polibio (nello spazio e nel tempo) |
Leggere Polibio - lo storico greco che per primo ha pensato storicamente Roma - è difficile. A tratti è pedante, spesso puntiglioso, ha un altissimo concetto di sé, scrive volutamente in modo complicato.
Tuttavia la sua vicenda biografica e politica, prima ancora che l'esisto delle sue ricerche storiche, è di grandissima rilevanza. Egli nacque in un mondo - il mondo ellenistico degli eterni contrasti fra le poleis greche e la Macedonia - e morì in un mondo totalmente diverso, in cui Roma era padrona dei destini del mondo, ma al cui interno si apriva la prima crepa della crisi con la seditio graccana.
Cercò di capire questa imprevista evoluzione della storia, questo straordinario intrecciarsi degli eventi, con gli strumenti teorici di cui disponeva (non pochi!): la teoria delle costituzioni, l'idea biografico/organicistica di nascita, akmè e declinio degli stati; la ricerca delle cause profonde degli eventi, l'incidenza del caso sugli eventi umani.
Fu testimone - da un punto di osservazione privilegiato di politico di spicco e di mentore del figlio di Lucio Emilio Paolo, il celebre Emiliano osannato da Cicerone nel De republica - del consolidamento della supremazia romana nel Mediterraneo, prima; e della conquista e sottomissione della Grecia poi. E fece in tempo a vedere addensarsi enormi minacce sulla pax romana, che tanto era costata alla sua gente, gli Achei.
Si interrogò su come una città-stato fosse riuscita a costruire un impero globale in pochi decenni.
Sentendosi un continuatore di Tucidide cercò di individuare le cause profonde del successo romano, formulando un modello teorico che avrebbe influenzato il pensiero politico per secoli. La forma di governo di Roma, secondo Polibio, è la chiave del suo successo: un sistema misto e in perfetto equilibrio che combina gli elementi positivi di ciascuno dei regimi individuati e descritti da Aristotele (monarchia, aristocrazia, democrazia e le loro degenerazioni). Il Senato garantisce la stabilità aristocratica, i consoli esercitano il potere esecutivo e i comizi popolari danno voce alla cittadinanza. Questo modello, secondo Polibio, è ciò che ha permesso a Roma di superare le crisi che avevano distrutto le altre grandi potenze del passato. Gli storici moderni preferiscono, ovviamente, altre risposte.
Ma il problema dell'imperialismo romano rimane in gran parte opaco: perché Roma si impegnò in una serie di guerre che misero a dura prova le sue capacità di governo?
All'espansione che l'equilibrata costituzione di Roma ha consentito sul piano storico - delle res gestae - corrisponde (è questa è l'altra intuizione/riflessione di Polibio) la possibilità di una storia 'universale' sul piano storiografico - dell'historia rerum gestarum. L'ingresso di Roma sulla scena politica consente di superare la frammentazione del racconto storico in tante narrazioni locali: Roma è ora il filo conduttore di tutte le narrazioni. L’unificazione del Mediterraneo sotto il dominio romano rende possibile, secondo Polibio, una storia globale, in cui gli eventi non possono più essere compresi isolatamente ma devono essere inseriti in un quadro d’insieme. Già era accaduto in passato: altri si erano fatti storici di potenze egemoni e ne avevano seguito l'ascesa e il dominio; ma nessuna di queste potenze aveva dominato su un territorio tanto vasto.
E tuttavia resta un problema.
Proprio mentre il sistema romano sembra aver raggiunto il suo apice con la distruzione di Cartagine e Corinto nel 146 a.C., emergono le prime crepe che ne metteranno alla prova la tenuta. La guerra di Numanzia e la crisi graccana - la plebe di Roma che reclama diritti politici e riforme - mostrano che l’egemonia non garantisce automaticamente la stabilità interna. Se il successo romano era stato costruito sulla coesione tra istituzioni e virtù civica, la crescita del potere porta ora a tensioni che la struttura politica non riesce più a controllare. Polibio aveva visto nella razionalità del sistema misto la chiave della stabilità, ma la storia si muove secondo logiche più complesse, in cui le trasformazioni economiche, sociali e militari possono rimettere in discussione anche gli assetti più solidi.
Dunque l'uomo romano, di cui l'Emiliano è per Polibio il prototipo, non è "l'ultimo uomo" (per riprendere una celebre espressione recente da The End of History and the Last Man 1992) e la pax romana non è la fine della storia.
Facciamo un salto in avanti, alla ricerca di analogie. Dopo la fine della Guerra Fredda, l’egemonia americana sembrava aver segnato la fine della storia, come ipotizzato da Fukuyama. Il liberalismo democratico e il capitalismo globale sembrano l’equivalente moderno del sistema misto romano: un modello capace di garantire stabilità, progresso e ordine internazionale.
Tuttavia, come Roma dopo il 146 a.C., anche il mondo post-1989 ha visto emergere nuove tensioni. Il declino del consenso interno nelle democrazie occidentali, la crescente competizione con potenze come la Cina, la crisi economica e la trasformazione del lavoro mettono in discussione la capacità del sistema attuale di mantenere il suo equilibrio. Le narrazioni di stabilità che hanno accompagnato gli ultimi decenni lasciano spazio all’incertezza e in cui la storia riprende il suo corso, mostrando che nessun sistema è immune dal cambiamento.
Le crisi - come la seditio graccana - vengono spesso dal centro del potere, non dalle periferie. Se guardiamo agli anni '20 del nostro secolo (dalla pandemia a Trump), possiamo chiederci se ci troviamo di fronte a un momento analogo al decennio 146-133, in cui un modello consolidato viene messo alla prova da eventi interni e internazionali. L’ordine globale post-Guerra Fredda, dominato dagli Stati Uniti, mostra segnali di crisi: il conflitto in Ucraina, il riassetto dell’economia mondiale con il rafforzamento della Cina, le tensioni nel Medio Oriente e i cambiamenti nella politica americana segnalano un’instabilità che ricorda quella di Roma dopo il 146 a.C. Anche l’aspetto interno è rilevante: la democrazia americana, costruita su un equilibrio istituzionale che ha garantito decenni di stabilità, è oggi segnata da fratture politiche e sociali profonde, con un confronto tra modelli politici opposti, come avvenne nella Roma dei Gracchi.
Un confronto tra questi due momenti potrebbe dunque svilupparsi attorno a tre assi:
- Il paradosso dell’egemonia – Roma nel 146 a.C. e gli Stati Uniti nel 2025 si trovano in una condizione in cui il loro predominio sembra assicurato, ma proprio questo successo genera tensioni e nuove sfide che mettono in discussione la loro capacità di mantenere l’ordine.
- L’emergere di nuove forze centrifughe – La crisi del consenso interno, in entrambi i casi, porta a conflitti sociali e politici: a Roma con la riforma graccana, oggi con la polarizzazione tra progressisti e conservatori negli Stati Uniti e in altri paesi occidentali.
- L’incertezza sul futuro dell’ordine politico – Per Polibio, il sistema romano sembrava immune al declino perché fondato su un equilibrio tra le diverse componenti della società. Tuttavia, la realtà storica mostrò che nessun assetto è definitivo. Allo stesso modo, la struttura istituzionale americana, pur solida, è oggi messa alla prova da dinamiche globali e interne che potrebbero modificarne profondamente il funzionamento.
L’analogia tra il 146 a.C. e il 2025 non è perfetta, ma suggerisce una riflessione più ampia sulla natura delle transizioni storiche e sulle illusioni di stabilità che spesso accompagnano le fasi di massimo potere di una civiltà. Polibio riteneva che l’espansione di Roma fosse il risultato di un modello di governo superiore, ma la crescita dell’impero generò squilibri che misero a rischio la stabilità della Repubblica. Fukuyama immaginava che la democrazia liberale, una volta affermatasi come sistema dominante, avrebbe garantito ordine e prosperità, ma la realtà ha mostrato che il consenso attorno a questo modello è tutt’altro che definitivo.
Sappiamo che la crisi aperta dai Gracchi - la fine di un periodo che verrà idealizzato e celebrato da Cicerone - sarà in parte riassorbita, in parte no fino a confluire nella più grande crisi delle guerre civili, dalle quali Roma emerge con nuove istituzioni di fatto (il Principato) anche se non de iure.
Le crisi superate ci insegnano molte cose, quasi quanto i collassi repentini.
Joseph Tainter, nel suo studio sul collasso delle civiltà (The Collapse of Complex Societies, 1988), sostiene che le civiltà collassano quando la complessità crescente del sistema diventa insostenibile, portando a un crollo rapido delle strutture istituzionali ed economiche. Tuttavia, non tutti i sistemi entrano in una fase di collasso; spesso, invece, si trasformano attraverso una serie di crisi che conducono a nuove configurazioni politiche ed economiche.
Nel caso di Roma, la crisi avviata dai Gracchi e dalle guerre civili non portò a un crollo immediato, ma a una transizione verso il Principato, una riorganizzazione del potere che garantì continuità, pur alterando profondamente la natura del sistema politico. Oggi, tra i fattori che potrebbero portare a una transizione o a una crisi sistemica vi sono:
- polarizzazione interna nelle democrazie occidentali, che mina la stabilità istituzionale e la capacità di leadership globale degli Stati Uniti.
- Ridefinizione delle sfere di influenza, con l’ascesa di potenze come la Cina e l’India, che sfidano il sistema geopolitico dominato dall’Occidente.
- Crisi ambientali ed economiche, che potrebbero aggravare le tensioni politiche e sociali, come già accaduto in altre fasi storiche di cambiamento sistemico.
Secondo la teoria della resilienza dei sistemi complessi, un ordine politico può adattarsi ai cambiamenti attraverso riforme e nuove strategie di governance, oppure può entrare in una fase di collasso se le tensioni superano la capacità di adattamento del sistema. Alcuni fattori possono contribuire alla resilienza del sistema, consentendo una transizione controllata invece di un collasso improvviso.
La resilienza di un sistema politico dipende dalla capacità di adattarsi senza subire un collasso improvviso. La Repubblica non riuscì a riformarsi in tempo utile, degenerando nelle guerre civili e nel Principato, ma il sistema politico non scomparve: si riorganizzò in una nuova forma. Anche l’economia gioca un ruolo decisivo: Roma vide un aumento delle disuguaglianze che alimentò tensioni interne, come accade oggi con la polarizzazione economica e le transizioni tecnologiche. Ma non sono da sottovalutare le narrazioni che legittimano l’esistenza degli stati: la Repubblica si fondava sulla partecipazione delle élite e sulla disciplina civica, ma una nuova narrazione accompagnò l'ascesa di leader carismatici come Mario e Cesare e poi Ottaviano Augusto.
Si torna pertanto al racconto dei fatti.
Nessun commento:
Posta un commento