Nell'estate del 416 a.C., gli Ateniesi intimano agli abitanti di Melo, una piccola isola del mare Egeo, di sottomettersi e di contribuire al mantenimento della flotta della Lega, di cui Atene è egemone e il cui obsoleto scopo era la difesa della Grecia dalla minaccia persiana. I Melii rifiutano, appellandosi alla giustizia e alla protezione degli dei. La risposta ateniese non lascia spazio a illusioni: nel mondo reale, contano solo i rapporti di forza. Lasciare che Melo rimanga neutrale nello scontro fra la Lega ateniese e la Lega peloponnesiaca, guidata da Sparta, sarebbe un segnale di debolezza, un pericoloso precedente che potrebbe ispirare altre città a ribellarsi.
Nonostante l’inferiorità militare, i Melii resistono all’assedio per un intero inverno. Ma quando gli Ateniesi sfondano le difese, la punizione è implacabile: gli uomini vengono sterminati, donne e bambini ridotti in schiavitù, l’isola trasformata in una cleruchia ateniese. Melo diventa così il simbolo della spietatezza dell’imperialismo ateniese e della sua incapacità di tollerare voci discordanti all’interno dell’egemonia che sta costruendo nel mondo greco.
Dal punto di vista stilistico, il dialogo tra Ateniesi e Melii è un unicum nelle Storie di Tucidide. La sua struttura formale, con battute di varia estensione, richiama la sticomitia tragica e i dialoghi platonici, suggerendo che il testo potrebbe essere stato concepito per una recitazione pubblica. Ma il contenuto è tutt’altro che teatrale: il confronto tra i due interlocutori è asimmetrico, un serrato gioco di argomentazioni in cui i Melii si aggrappano a valori come la giustizia, la pietà e la speranza, mentre gli Ateniesi ribattono con un pragmatismo glaciale, sancendo la legge del più forte come unica regola nelle relazioni tra gli stati.
Il dibattito tocca questioni sempre vive per la riflessione politica: il ruolo della giustizia nelle relazioni internazionali, il rapporto tra virtù e fortuna, il dilemma della resistenza di fronte a una forza soverchiante. Gli Ateniesi insistono sul fatto che la giustizia ha senso solo tra pari e che la neutralità dei Melii non è accettabile perché minaccia la stabilità del loro dominio. I Melii, dal canto loro, confidano nell’intervento spartano e nella benevolenza divina, una fiducia che gli Ateniesi liquidano come cieco irrazionalismo.
Uno degli snodi concettuali più affascinanti del dialogo riguarda il tema della vergogna (αἰσχύνη). I Melii tentano di evocare un senso di onore negli Ateniesi, accusandoli di κακότης (malvagità) e δειλία (viltà) se non concederanno loro la libertà. Ma gli Ateniesi ribaltano la prospettiva: non è una questione di ἀνδραγαθία (valore) né di evitare il disonore, ma di sopravvivenza. La vera vergogna, dicono, è affrontare pericoli insensati per salvare l’onore, quando il prezzo da pagare sarà la rovina.
Questa concezione spietata del potere si colloca in un orizzonte intellettuale vicino alla sofistica. L’enfasi sul nesso tra δύναμις (forza) e ἔργον (azione) richiama le teorie di Gorgia sull’efficacia del discorso e il suo potere distruttivo. Gli Ateniesi non si limitano a enunciare la legge del più forte: la costruiscono attraverso un linguaggio che smonta ogni alternativa etica o religiosa, trasformando la necessità politica in destino ineluttabile.
Tucidide non prende posizione esplicita nel dibattito, ma lascia che siano le parole e le azioni a parlare. La lucidità analitica degli Ateniesi li rende figure di straordinaria modernità, capaci di una lettura realistica delle dinamiche del potere. Ma il prezzo della loro razionalità è una totale disillusione sulla natura umana e sulla possibilità di un ordine politico fondato su principi diversi dalla forza. Quando, alla fine del dialogo, gli Ateniesi passano dalle parole ai fatti e radono al suolo la città, l’impressione è che Tucidide ci lasci con una domanda sospesa: l’imperialismo, per quanto inevitabile, può mai essere giustificato?
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