venerdì 3 ottobre 2025

Discorsi: forti e deboli


Nel discorso che tiene ai suoi discepoli, poco prima di morire, come ricostruito liberamente da Platone, Socrate dice, parlando di sé e tracciando una sua 'autobiografia' intellettuale: "mi è sembrato necessario rifugiarmi nei discorsi e in essi vedere la verità delle cose". (95e 7- 100a 9). Da giovane si era appassionato ad un altro tipo di ricerca, ma poi ha pensato di rivolgersi al linguaggio umano, con un metodo ancora del tutto diverso dal precedente: "un altro metodo che metto insieme io stesso, alla meglio". 
Qual è questo metodo?
Ne esisteva già uno praticato ad Atene: la tecnica antilogica, cioè conflitto fra Discorsi. Un metodo con il quale valutare quale dei discorsi possibili su uno stesso argomento fosse il più forte, quello in grado di far vincere una disputa. Sembra lo stesso metodo: dice Socrate: "di volta in volta assumo come ipotesi un discorso, quello che giudico più forte e considero vere le cose che si accordano con quello, sia riguardo alla causa sia riguardo a tutto il resto, mentre considero non vere le cose che siano in disaccordo".

Aristofane, il comico, nella commedia Nuvole, fa dei due discorsi due personaggi. Ma le cose vanno diversamente da come ci aspetteremmo! Il Discorso Debole dice infatti di sé:

Io per questo sono chiamato Discorso Debole
tra i pensatori: perché per primo ho pensato
di opporre argomenti contrari a leggi e giustizia.
E questo vale più di mille stateri:
scegliersi i discorsi più deboli, e poi vincere!
Guarda come confuterò l’educazione…

Vincere con discorsi deboli! 

Anche Tucidide parla di discorsi forti e deboli. Durante la guerra civile di Corcira: 
 
All’usuale valore che le parole avevano in rapporto ai fatti ne fu contrapposto un altro. L’audacia irrazionale fu chiamata ‘coraggio altruistico’ e la previdente cautela ‘viltà mascherata’, e la moderazione ‘manto del vigliacco’, e la prudenza in ogni cosa ‘essere oziosi in ogni cosa’ .
 
Debole è un discorso retorico, la retorica dell’ardire, contro il discorso forte della moderazione e della prudenza. Nella guerra civile matura una nuova interpretazione del comportamento stesso e pertanto nuovi nomi delle cose. Quando la discordia civile ('polarizzazione', diremmo oggi) arriva ad Atene, anche là si verifica lo stesso fenomeno. In più, nasce una nuova attitudine. Gli ateniesi ascoltatori di discorsi sono  

bravissimi a farvi ingannare dalla novità di un discorso, e a non volere eseguirne la deliberazione approvata, schiavi delle stranezze e sprezzanti di ciò che è usuale, tutti desiderosi soprattutto di essere bravi a parlare, o se no, di gareggiare con chi parla bene; lodando, per non sembrare gli ultimi in fatto di intelligenza, chi dice qualcosa di acuto, pronti a presentirne le parole e lenti a prevederne le conseguenze 

La comunicazione in tempo di crisi è caratterizzata da un ricorso insistito a idola novitatis: parole, idee, immagini nuove, strane, bizzarre, dette con gestualità coinvolgente, spettacolare. L'ascoltatore di questi discorsi non coglie il piano razionale dell’argomentazione, ma vuole mostrare di essere come l’oratore si aspetta che egli sia: arguto, intelligente, originale. E dal canto suo, l’oratore cerca di interpretare le aspettive dell’uditorio e assecondarle. Il discorso siffatto suscita un consenso e viene infine premiato non per la sua attinenza alla verità o ai fatti, ma perché si stabilisce un legame di condizionamento reciproco fra il parlante e gli ascoltatori. 

Torniamo ad Aristofane. Il contadino rozzo Strepsiade è oberato dai debiti contratti per le costose abitudini del figlio. Ma, egli crede, se questi imparerà il Discorso Debole potrà evitare che il padre paghi i suoi debiti. Il Debole è il discorso che vince comunque, sia le cause giuste che quelle ingiuste. 

Come?

Quando appare in scena, il Discorso Debole si augura di parlare davanti a molta gente e sostiene di poter vincere proprio inventando idee “nuove”, “intelligenti”; chiama, con evidente e  comico stravolgimento di significanti e significati, “rose” e “gigli” gli insulti rivoltigli dal Discorso Forte, difende il diritto ai piaceri effimeri: i bagni caldi, i piaceri sessuali e alimentari. L’ascoltatore è vinto dall’oratore, ma l’oratore è parimenti vinto e soggiacente al desiderio dell’uditorio che vuole compiacere: il suo discorso è dunque un discorso fiaccato, indebolito, schiavo del piacere che produce e da cui è prodotto.

Esiste dunque, individuato da Tucidide e da Aristofane, un problema sociale e politico di trasformazione del linguaggio, per cui alle regole e ai criteri consolidati - che consentivano al parlante di sanzionare un comportamento o di dire un’azione ‘coraggiosa’ o ‘vile’ - si va sostituendo un diverso criterio, edonistico, che impone al parlante di adeguarsi in primo luogo ad un’aspettativa comunitaria (cioè di piacere ai suoi ascoltatori, per la novità, spregiudicatezza, originalità, stranezza del discorso). 

Cosa intende quindi Socrate per Discorso Forte? Si tratta di un discorso perdente o vincente nella prassi reale? 
In molti dialoghi, Platone ci mostra Socrate fare discorsi retorici, capziosi, che manipolano l'avversario: Discorsi deboli. E sempre vince. Perché il discorso debole non ha in realtà niente di proprio da dire, vuole solo confondere l'altro, farlo innervosire, dubitare di sé. Decisamente sofistica è per esempio il discorso - la rhesis - di Socrate nel Protagora. Dopo averla pronunciata e aver ricevuto l’applauso dagli astanti, Socrate tuttavia se ne discosta subito, negando il valore conoscitivo di simili conversazioni. 

Di cosa si è trattato? Di un inutile scherzo? 

Il valore della vittoria nell’agone argomentativo è di tipo strategico: Socrate usa il vantaggio sofisticamente ottenuto per dare inizio ad un altro tipo di dialogo, realmente socratico. Questo consiste in una situazione di scambio linguistico di tal genere: il parlante 'mostra' il suo discorso ad un altro interlocutore, ad un interprete, potremmo dire. L’interprete, nell’accogliere il proferimento che gli viene mostrato, ma che può essere anche un’azione o un pensiero, ha un atteggiamento attivo: può/deve modificare ciò che fino a quel momento conosceva - di sé, dell’altro, dell’oggetto di cui si parla - in direzione dell’accoglimento di ciò che ancora non conosce (perché non lo “vede” ancora). Questa modifica che l’altro introduce può consistere in nuove ipotesi, nell’aggiustamento di precedenti interpretazioni, nella rettifica di posizioni divenute inaccettabili alla luce della nuova evidenza. 
Allo stesso modo, il parlante può/deve adattare al suo interprete il suo discorso, facendo cadere o inserendo argomenti e interpretando a sua volta il modo in cui quegli reagisce alle sue parole. 

Ciò che si realizza in una comunicazione così concepita è una connessione, un accordo, in virtù del quale il parlante viene compreso secondo la sua intenzione. Due interlocutori, che non condividevano forse nulla prima di incontrarsi, possono convergere su un’ipotesi, una definizione, una teoria. Tale convergenza rende “sicuro” il riferimento del discorso ad un oggetto, perché realizza una triangolazione: il discorso presentato non è più, dopo la comunicazione, appartenente soltanto ad un soggetto; dopo che è stato mostrato all’altro acquisisce consistenza, non è più un’illusione o una falsa immagine . L’accordo dell’interprete - da conseguirsi nel tempo della comunicazione -  funge da prova della consistenza del discorso. 

Questo accordo tuttavia non può sempre essere raggiunto. Non per una malattia del linguaggio, ma per una malattia dei parlanti. Occorre prima guarire e poi discutere. Occorre prima sapere di essere malati e poi voler guarire e poi discutere. La malattia - che Socrate diagnostica nel Protagora, a Protagora - è questa: egli ha su ogni argomento due possibili discorsi: uno, audace e apertamente soggiacente al piacere, un discorso nuovo, acuto, pieno di trovate retoriche; l’altro, resistente e coraggioso, ma impotente, con armi spuntate nella lotta dei discorsi. Se vuole discutere deve lasciare cadere uno dei due discorsi: scegliere l'audacia o il coraggio, l'edonismo o la forza. 
Lasciar cadere significa accettare che l'opinione venga riformulata nel corso del discorso, accettare di spostarsi su nuove posizioni. Socrate accetta il punto di vista dell'edonista, sviluppando con il sostegno di Protagora una teoria della misurazione dei piaceri. Quindi, quando si passa ad affrontare il tema del coraggio, e si mostra l'impossibilità di essere sia edonisti che coraggiosi, Protagora rinuncia volentieri alla sua precedente definizione di coraggio, pensando di non avere nulla da temere dalla discussione. 

I sofisti vincono i dibattiti perché non hanno opinioni proprie. Ma sono pronti a sposarne sempre diverse, se fa loro comodo. Socrate però scava nella contraddizione, si mette a pensare come il sofista, lo spinge a cedere su questioni apparentemente irrilevanti o che lusingano il suo ego. 

E poi usa questo accordo come un grimaldello, per mettere in crisi tutte le strategie retoriche dell'interlocutore. Perché la nuova definizione di coraggio mette in campo un criterio che spazza via l'edonismo: la conoscenza. Non essendo realmente un edonista, Socrate non perde niente. Viceversa Protagora perde tutto il patrimonio argomentativo fino a quel momento conquistato. 

Questo accordo, anche minuscolo, ottenuto da Socrate come per incidens mentre discute di cose più grandi, è un discorso di tipo diverso: è il discorso validato, verificato. Con un interlocutore non sofista è la base di ogni discorso, produce armonia e sinfonia di discorsi. 
Con il sofista è l'arma invisibile che lo inchioda ad una ed una sola opinione. E vanifica ogni strategia. 


sabato 6 settembre 2025

Donne che leggono e scrivono: Saffo



Leggere e scrivere sono attività femminili. 
Uno strano stereotipo! Che tendiamo ad associare a delicate fanciulle ottocentesche, sedute ai loro piccoli scrittoi, mentre vergano caste lettere d'amore o pagine di diario o scritti brillanti su argomenti personali, o mondani. Ma che invece pare sia molto più antico. E legato alla 'fortuna' - cioè alla trasmissione e diffusione - di Saffo, la poetessa greca. 
Nell’immaginario greco, e poi latino, Saffo è infatti una lettrice e una scrittrice: dalla ceramica attica del V secolo, in cui la poetessa legge i propri stessi versi attorniata da fanciulle ad Ovidio, che crea l’immagine di Saffo piangente mentre scrive lettere d’amore all'amante perduto: Faone; in mezzo, la Commedia Nuova che – per quel poco che conosciamo – ci restituisce un’immagine della poetessa impegnata in attività di ‘écriture femminine’. 

Questo stereotipo di genere appare ben documentato, soprattutto se teniamo conto dello scarso interesse delle fonti nel documentarlo (e quindi ‘a dispetto’ delle fonti). C'è in particolare una categoria di fonti che lo mostra in modo inequivocabile: la ceramica. Gli oggetti di ceramica, da vasi ai piatti, erano enormemente diffusi e molto spesso contenevano una figurazione. Erano dipinti con scene di vario tipo: mitologico, o di genere. Cioè di vita quotidiana. Fra cui, appunto, scene di lettura. 
Persone che leggono.
Scene di lettura che hanno come protagoniste figure femminili sono molto frequenti, nell'Atene del V-IV sec. a.C., su pissidi e pelikai, cioè su vasi di uso cosmetico, ma anche (meno frequenti) su vasi a destinazione funeraria. Su questi anche figure maschili sono mostrate nell'atto di leggere: sono giovani o adolescenti. 
Circostanza quest'ultima davvero illuminante! Che lega l’atto di leggere al tema della morte precoce, di giovani uomini, cui è stato impedito di ricoprire un ruolo di cittadino a tutti gli effetti all’interno della polis. Le donne invece, il cui prestigio sociale è irrilevante, 'leggono' - per così dire - per tutta la vita! Diversamente dai maschi adulti, per i quali vengono predilette ben altre attività, come la caccia o lo sport. 

Dunque che sui vasi attici la categoria più rappresentata in relazione al libro è quella delle donne, ciò nonostante il silenzio delle fonti letterarie, quando non l’aperta condanna, circa l’educazione letteraria femminile. Le raffigurazioni frequenti di agoni musicali tra donne, con rotoli aperti in mano, in ambienti aperti come porticati, inducono a postulare l’esistenza di una, sia pur limitata, forma di educazione letteraria femminile, né manca l’attestazione vascolare di ‘scolarette’ con in mano le tavolette da scrittura. Anche in scene figurate complesse, di ‘vita quotidiana’ femminile, accanto agli strumenti musicali e agli utensili per la cosmesi, figurano sempre i libri, nella consueta forma di rotolo, talora contenuti in grandi casse. 

Musica, cosmesi, lettura e scrittura sono parte integrante e 'iconica' della vita quotidiana femminile: almeno nell'immaginario dei pittori vascolari.

Le iscrizioni offrono dati altrettanto interessanti: su un kantaros proveniente da Tespie è graffita una dedica ad una tale Eucari, moglie di Eutetrifanto che accompagna il dono della coppa stessa. Nella dedica, il dedicatario invita la donna, “a bere smodatamente”. Si tratta di uno scherzo, che però lascia intendere come non problematica non solo la presenza della donna al simposio ma anche una sua cultura letteraria, senza la quale non avrebbe potuto leggere la dedica e coglierne la maliziosa allusività. Altre iscrizioni come il graffito di Eretria e e l’iscrizione greca delle necropoli di Osteria dell’Osa, risalente al VIII secolo e apposta su un vasetto appartenente a un corredo femminile vanno nella medesima direzione: cultura scrittoria femminile non problematizzata, pacifica.

Di queste pratiche di scrittura e lettura femminile, la cui documentazione si infittisce ad Atene, fra il V e il IV secolo, ma che non sembra sconosciuta al di fuori di Atene, Saffo sembra essere stata considerata – a torto o a ragione - una sorta di inventrice o patrona. Un grande valore in questo senso ha la celebre Hydria di Vari. Si tratta di una hydria - un vaso per liquidi - a figure rosse datata 440-430 a.C. conservata al Museo Archeologico Nazionale di Atene, attribuita al Gruppo di Polignoto, su cui è raffigurata Saffo - identificata dall’epigrafe nominale Σαππώς in caratteri maiuscoli - seduta su un klismos mentre legge da un rotolo di papiro: una donna è alle sue spalle; altre due figure femminili le stanno di fronte, la prima di esse tiene in mano una lira. 

Un vaso meraviglioso e si straordinaria importanza!

L’hydria ci documenta la presenza delle pratiche di lettura e scrittura accanto ad altri ‘ingredienti’ di quella che sembra la “way of life” tipicamente saffica, come ricostruita in certi ambienti di Atene nel IV secolo: musica, libri, fanciulle, raffinatezza dell’ambientazione e dell’abbigliamento. Il rotolo reca scritto - visibile - l’incipit di un componimento che potrebbe essere un inno: Θεοί ἠερίων ἐπέων ἄρχομαι ἄλλων “déi, inizio gli altri aerei versi”. Un titolo che ha il compito di amplificare la solennità e ‘rispettabilità’ della scena. I bordi arrotolati del papiro, nella parte esterna, invece recano la iunctura omerica Επεα πτερόε[ν]τα, “parole alate”. L’iconografia dell’hydria di Vari è non è isolata come si è visto: si tratta invece di un modo abbastanza consueto di illustrare scene di vita quotidiana femminile: le donne sono generalmente mostrate in gruppi, spesso con una figura centrale seduta che suona uno strumento musicale, oppure esegue gesti legati alla lavorazione della lana, o sceglie gioielli o, occasionalmente, legge. Altre donne sostengono questa figura centrale, partecipando in qualche modo alla sua attività. 

È interessante notare che questa iconografia è analoga a quella delle Muse, le dee ispiratrici delle arti, anch’esse impegnate in diverse attività, connesse con la musica e la lettura. In questo caso, l’ambientazione può diventare en plein air con la semplice aggiunta di un ramo. 

Ma a cosa erano destinati i vasi con scene musicali o poetiche al femminile? Questa iconografia si presta a due differenti contesti, fra i quali quello legato al matrimonio: la donna seduta talvolta tiene in mano una corona, oppure uno scrigno, uno strumento musicale, uno specchio. Anche le figure di contorno portano eleganti contenitori, rotoli, lire, auloi, o gli astucci degli strumenti stessi. Fra le donne, può occasionalmente apparire un Eros alato con una corona in mano o in volo sulla figura seduta. 
Si tratta probabilmente di festeggiamenti, o preparativi, o anticipazioni della vita al femminile.

Veniamo ad un altro gruppo di fonti, letterarie. Due titoli di commedie (i testi sono quasi del tutto perduti) sono molto interessanti: Σφίγξ (Sfinge) di Epicarmo e Κλεοβυλῖναι (Clobuline) di Cratino, di cui erano protagoniste un gruppo di donne, le Cleobuline, che proponevano enigmi ai loro pretendenti – un motivo folklorico ben attestato – in una sorta di agone. Della commedia di Cratino abbiamo pochi frammenti (fr. 92 à 101 K.-A.) dai quali si può ricostruire che la commedia aveva come protagonisti Cleobulo, uno sei Sette Saggi e sua figlia Cleobulina, un personaggio la cui consistenza storica è stata recentemente rivalutata. La figura di Cleobulina è molto interessante: Plutarco la inserisce come partecipante al Convivio dei Sette Sapienti e ne fa una figura di donna colta, arguta, brillante: a lei la tradizione attribuiva un indovinello non banale, ma ‘filosofico’. 
Parlare per enigma era una prassi linguistica non estranea al simposio aristocratico. Giochi linguistici sono ben attestati nella poesia greca arcaica simposiale: veniva formulato un enigma o un indovinello (griphos) di cui non veniva data la soluzione, che restava meta-simposiale, legata alla situazione, agli oggetti, ai simposiasti stessi, alle loro eterìe. Era previsto anche un premio per chi li risolveva e una punizione per chi falliva. Tutto ciò ci porta a un contesto di competizione. In questo senso il simposio, almeno nelle sue fasi arcaiche, sembra essersi ispirato ad antiche situazioni agonistiche, in cui l'enigma è una gara di intelletto.”. 
Ancor più interessante un frammento di Antifane, un commediografo la cui produzione si può collocare intorno al 380 a.C. e che scrisse una commedia intitolata Saffo, la cui trama aveva certamente a che fare con la scritturaDell’opera restano due frammenti: uno di questi consiste nella parola βιβλιογράφος (bibliografo) di cui ignoriamo il contesto ma che ben si inserisce in quanto detto fin qui; l’altro frammento, 194 K-A, rappresenta un dialogo fra Saffo e un'altra figura la cui identità non è possibile precisare. 
A questo imprecisato personaggio, Saffo propone un enigma: 

c’è un essere femminile che custodisce
nel suo mantello i suoi bambini che pur essendo senza voce emettono un grido
che risuona sulle onde del mare e sulla terraferma
per coloro fra i mortali che essi vogliono

Dopo un tentativo di soluzione, errato, fornito dall’interlocutore, la stessa Saffo (non prima di aver bruscamente rimbrottato l’inefficace solutore) risolve l’enigma. 
Ed ecco la soluzione:

dunque, l’essere femminile è un’epistola
i bambini che porta dovunque sono le lettere
sebbene senza voce, essi parlano, se vogliono
a coloro che sono lontani; e se a qualcuno capita di essere 
vicino ad uno che legge non sentirà.

Il ‘tema’ dell’indovinello è quindi la ‘lettera’. 
Degna di nota la risposta errata fornita dall’interlocutore di Saffo: egli ritiene che l’essere femminile sia ‘la polis’ e i suoi figli i ‘retori’. Viste nel loro insieme, come sottolinea Paola Ceccarelli che se ne è occupata, le due soluzioni sono antonomasticamente legate ai due poeti di Lesbo: Saffo e Alceo e ne sintetizzano il tema ricorrente all’interno di stereotipi di genere: per l’uomo, sembra dire il nostro frammento, ogni gioco linguistico riconduce alla politica e al discorso orale, per la donna l’orizzonte è piuttosto quello del privato e della scrittura. Un tardo epigrammista, Dioscoride, riprende l'indovinello e lo mescola a dati biografici su Saffo: Saffo è la madre e i suoi scritti sono le ‘figlie’. 

La rappresentazione di Saffo fornita da Antifane unisce in un medesima rappresentazione aspetti di Saffo che la tradizione preferisce tenere separati: nell’iconografia vascolare, noi troviamo ben distinte, da un lato, la sfera che attiene al griphos, al simposio, ma anche all’erotismo, in cui Saffo è spesso rappresentata in coppia con Alceo o con Anacreonte, con una serie di rimandi iconografici all’ebbrezza, alla sfrenatezza, allo stereotipo del poeta ‘orientale’; dall’altro, quella che rimanda al gineceo, alla competizione musicale a sfondo paideutico, alla lettura e alla scrittura, al culto, alle Muse. Il contenuto del griphos della Saffo di Antifane evoca questa dimensione ‘femminile’; ma la forma del griphos e il contesto della performance per cosi dire enigmistica evocano invece un mondo più tipicamente ‘maschile’. 

Una figura come quella di Cleobulina ci fa intravedere quale potesse essere il modello di donna e di matrimonio cui tendeva l’educazione nella cerchia di Saffo: una donna istruita che potesse svolgere un ruolo anche ‘diplomatico’ – alcune delle relazioni diplomatiche fra le aristocrazie arcaiche dovevano passare per le relazioni matrimoniali – in cui mettere a frutto acume, prontezza di spirito, vivacità intellettuale, abilità nel canto e nell’ospitalità. Le occasioni conviviali dovevano essere affini al simposio maschile ma probabilmente potevano prevedere la presenza femminile, c'era forse un segmento del simposio che consentiva una partecipazione allargata a donne che non fossero etere o flautiste, sul modello del simposio dei Sette Saggi immaginato da Plutarco.  Una delle attività di questo tipo di simposio poteva essere quella legata a giochi di società, indovinelli, ‘questioni’ protofilosofiche. 
Ma, nell’ Atene del V e IV secolo, dove la diplomazia e la politica sono diventate pubbliche, queste doti politico-diplomatiche individuali e addirittura femminili risultavano necessariamente anacronistiche o incomprensibili, legate ad uno stile di vita in disuso. A ereditarle sembrano essere state figure come l’etera, con cui infatti spesso Saffo fu scambiata, contigue alle pratiche della prostituzione.
Parallelamente, la pratica della scrittura e lettura femminile devono aver subito un processo di banalizzazione, essere confinate nelle case, nei ginecei, sfrondate tematicamente fino alla monotematicità amorosa.



domenica 13 luglio 2025

Oggetti personali e identità

Achille cura la ferita al braccio sinistro di Patroclo. Kylix attica a figure rosse del Pittore di Sosias, datata intorno al 500 a.C


Se l'identità di Odisseo è riposta anche negli abiti che indossa, l'identità di Achille risiede invece nelle armi. 

La storia delle armi di Achille percorre per esempio, come una trama sommersa, tutto il poema dell’ira. Achille appare, a se stesso e agli altri eroi che combattono a Troia, come «forte quanto nessuno dei Danai chitoni di bronzo, in guerra». Questa forza viene declinata più precisamente dal fiume Scamandro, irato contro Achille come: «forza (…) prestanza (…) armi belle». Egli è dunque un guerriero, ma più precisamente un guerriero armato. 

Le armi di Achille rivestono, in realtà, non solo una notevole importanza in tutto il poema, ma anche un ruolo decisivo nella stessa vita di Achille e nella sua decisione di combattere a Troia. Secondo una tradizione raccolta da Euripide e da Sofocle, per sfuggire al suo destino di morte, cui sarebbe andato incontro combattendo contro i Troiani – come profetizzato da Calcante – Achille avrebbe trovato rifugio alla corte di Licomede a Sciro, travestito da fanciulla. Odisseo, incaricato con Fenice di condurre l’eroe a Troia, trovatolo a Sciro fra le fanciulle del luogo, distribuì canestri e oggetti femminili mescolati ad armi: le fanciulle si precipitarono impazienti sugli ornamenti femminili, mentre Achille svelò la sua identità afferrando le armi. Secondo una versione differente del medesimo tema, fu invece il suono di una tromba e il fragore delle armi a far scoprire Achille: supponendo che il nemico fosse alle porte, Achille si sarebbe liberato degli abiti femminili e avrebbe afferrato la spada e lo scudo. Questi racconti, verosimilmente trattati dai poemi del “ciclo epico”, di cui abbiamo ben poco e assenti nell’Iliade (che però conosce la predizione di morte prematura di Achille in caso di partecipazione alla guerra di Troia), mostrano come l’identità di Achille sia fortemente legata alle armi.

Nell’Iliade, Achille veste dapprima la panoplìa che già era stata del padre Peleo, dono a quest’ultimo degli dei per le nozze con Teti. Sono dunque armi immortali,

(…) che i numi figli del Cielo

donarono al padre suo; ed egli al figlio le diede,

da vecchio; ma il figlio non invecchiò nell’armi del padre

Al suo carro sono aggiogati cavalli profetici, anch’essi divini e donati dagli dei a Peleo:

Xanto e Balío, velocissimi figli del vento Zefiro e dell’Arpia Podarghe. 

A queste armi sembra legato un potere specifico: quando Ettore, dopo averle tolte a Patroclo morto, le indossa, Zeus in persona deve acconsentire a che le armi gli “si adattino”, entri in lui Ares e gli riempia le membra di vigore e di forza. La panoplìa è così descritta in un gruppo di versi formulari che illustrano la vestizione di Patroclo:

Prima intorno alle gambe si mise gli schinieri

belli, muniti d’argentei copricaviglia;

poi intorno al petto vestì la corazza

a vivi colori, stellata, dell’Eacide piede rapido.

S’appese alle spalle la spada a borchie d’argento

bronzea, e lo scudo grande e pesante;

sulla testa gagliarda pose l’elmo robusto,

con coda equina; tremendo sopra ondeggiava il pennacchio

Di essa fa parte pure un’asta:

grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva

brandirla, solo Achille a brandirla valeva,

faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,

dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri.

L’Iliade conosce altri di questi manufatti, opera di artigiani mitici, donati dagli dei a un mortale e alla sua discendenza. Il più celebre è certamente lo scettro di Agamennone, che ha un ruolo molto importante nell’Iliade. La sua funzione primordiale è quella del bastone del messaggero: lo scettro è l’attributo di un itinerante che avanza con autorità, non per agire ma per parlare. Esso:

(…) qualifica il personaggio che porta la parola, personaggio sacro, la cui missione è di trasmettere il messaggio d’autorità. È da Zeus che parte lo skeptron che, attraverso la catena dei detentori successivi, arriva ad Agamennone. Zeus lo dona come insegna di legittimità a quelli che egli designa perché parlino in suo nome (Benveniste).

La panoplìa di Achille ha un significato analogo. Medesima è la catena di trasmissione, medesimo è il rapporto fra donatori – Zeus, gli dei Uranii (se Agamennone ha un rapporto privilegiato con Zeus, Achille è infatti in relazione con più di una divinità, Teti, sua madre, Atena, Era, Efesto e in special modo con i messaggeri Iride ed Ermes) – e i donati. Sembra dunque che le armi divine di Achille siano l’attributo di colui che è investito dalla missione di «dar morte ai guerrieri». Chi le brandisce, agisce in nome degli dei, è ed animato da essi.

Lo scettro di Agamennone ha tuttavia un uso duplice: Agamennone lo detiene usualmente, ma i partecipanti all’assemblea lo tengono in mano a turno quando prendono la parola: è il dono di Agamennone, ma può essere temporaneamente acquisito da ciascuno dei capi achei. Lo scettro consente due modi differenti di configurare l’autorità che esso esemplifica: un modo permanente, che è quello di Agamennone, la cui identità fa tutt’uno con esso; un modo temporaneo, quello dei capi achei, che accedono all’autorità in un tempo e uno spazio determinati, quelli della parola assembleare. Una siffatta duplicità è presente anche nelle armi di Achille, sebbene diversamente organizzata: la panoplìa comprende infatti una parte – schinieri, corazza, spada, scudo, elmo – che può essere temporaneamente indossata da un portatore diverso da Achille. 

A vestirla saranno, con esiti diversi, Patroclo ed Ettore. 

Un’altra parte della panoplia, l’asta di faggio del Pelio, è invece legata indissolubilmente ad Achille: egli soltanto può legittimamente usarla «nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva». Ora, l’asta da combattimento è l’arma offensiva per eccellenza, è la dimostrazione del desiderio del guerriero greco, dell’oplita, di «avvicinarsi al nemico per trafiggerlo guardandolo in faccia». In questo, essa è profondamente diversa dall’arco e dalle armi da lancio, disprezzate dai Greci e considerate armi tipiche del guerriero barbaro o dei ragazzi non iniziati. È l’arma che esprime la superiorità morale del guerriero che affronta il nemico nel faccia a faccia. 

Un primo momento di riflessione riguarda la possibilità di “prestare” le proprie armi. Nell’Iliade, il saggio Nestore, fallito ogni tentativo di persuadere Achille a partecipare alla battaglia, suggerisce a Patroclo di dare questo consiglio all’amico: se non vuole egli stesso partecipare alla guerra, mandi Patroclo, dia a lui le sue armi, cosicché i nemici, credendo di trovarsi davanti Achille, fuggano via dando momentaneo respiro agli Achei. Nestore conosce il potere delle armi di Achille, il loro potere evocativo e deterrente che vuole usare per difendere l’esercito in un momento di estremo pericolo. Patroclo dunque si reca dall’amico e gli illustra il pericolo imminente. Achille cede, ed ecco il suo piano: Patroclo vestirà le sue armi per difendere le navi dalla rovina, riconquistare la fama per Achille in modo che egli possa vedersi restituita la schiava e i doni. Ma egli non deve combattere, non deve guidare l’esercito. Morti Troiani e Achei, Achille e Patroclo - soli - si salveranno e avranno tutta la gloria.

Patroclo dunque obbedisce e veste le armi di Achille, ad eccezione dell’asta, che non può brandire: la superiorità morale del guerriero che combatte nel faccia a faccia non è – potremmo dire – il “suo” dono; egli può invece “vestire” l’armamento difensivo. 

Ma può Patroclo - sul piano simbolico - indossare l’armatura da difesa di Achille? E per farne quale uso, se non può guidare l’esercito, come Achille gli ha ingiunto? 

Anzitutto, occorre sottolineare che Patroclo è legato ad Achille da una particolare synousia, che Nestore ha suggestivamente evocato: ciò vuol dire che esiste fra i due un accordo che risiede nella comune esperienza esistenziale, ma che va anche al di là di essa. L’identità di Patroclo è infatti parzialmente coincidente con quella di Achille: essi condividono una certa disposizione alla difesa, alla cura difensiva. Achille, che è stato istruito nelle arti mediche da Chirone, è colui che si accorge con dolore della sofferenza degli Achei decimati dalla peste e che si impegna a proteggere Calcante se costui dirà la verità.

Anche Patroclo è votato alla cura e alla dedizione: questo aspetto del suo carattere è evidenziato proprio nell’episodio ora menzionato. Infatti fra i due momenti salienti, quello in cui egli riceve da Nestore il consiglio di vestire le armi di Achille e quello in cui egli, riferito ad Achille il colloquio e accordatosi con lui, ne veste infine le armi; fra questi due momenti c’è uno strano e incongruo intermezzo. Congedatosi da Nestore, che gli aveva fatto un quadro tragico delle ferite inferte agli eroi Achei, Patroclo incontra proprio un compagno ferito, devia dalla sua originaria a prioritaria missione (egli ha fatto anche fretta a Nestore, ricordandogli il carattere iroso di Achille, dal quale deve al più presto tornare) per portare soccorso al compagno, aiutarlo a rientrare nella sua tenda, assisterlo e trattenersi con lui fino all’ultimo momento utile, in cui finalmente si ricorda della missione da portare a compimento. 

Come interpretare questa incongruenza narrativa? 

È agevole leggere in questo intermezzo una puntualizzazione efficace della identità di Patroclo: egli è uomo della cura e dell’assistenza, dell’azione oblativa e disinteressata, che compie malgrado tutto, anche quando dovrebbe evitarla.

Questa sua azione oblativa fa tutt’uno con il ruolo di angelos, che egli riveste in conseguenza dell’inattività di Achille. L’angelos è una figura tipica della tragedia, ma rispecchia la pratica comune degli informatori, figure spontanee che convertono eventi in notizie e se ne fanno latori più o meno interessati; ovvero – come in questo caso – tramiti passivi di messaggi spediti da un emittente ad un destinatario. Questi ultimi possono poi essere latori di messaggi ingiuntivi, in tal caso saranno “araldi” professionali con prerogative speciali, o semplicemente informativi. L’ angelos ha di norma uno statuto subalterno, può essere un diretto dipendente o uno schiavo; egli deve – come Patroclo in effetti fa - ripetere fedelmente il messaggio dell’emittente, dopo averlo memorizzato. 

Ricapitoliamo: Patroclo non ha una sua identità “personale” di eroe guerriero. Il suo statuto non lo consente: agendo, ascoltando, vedendo, parlando egli lo fa in nome e per conto di Achille. Il suo rapporto con Achille fa sì che egli possa materialmente vestirne, in modo credibile e verosimile, la panoplìa; non come un eroe vestirebbe la sua propria panoplìa di guerriero, bensì come qualcuno che condivida, partecipandovi, il “dono”, l’identità di colui che egli rappresenta. La forza guerriera, “dar morte ai guerrieri” che Achille legittimamente esercita e incarna, potendone evocare negli dei Uranii la fonte, non è accessibile direttamente a Patroclo (ma lo sarà per Ettore). Egli condivide, per la synousia con Achille che il suo essere angelos comporta, la vocazione alla difesa dei compagni attaccati e assediati dal nemico.

L’idea che la vestizione delle armi di Achille da parte di Patroclo suggerisce è quella linguistica della “citazione”: Patroclo sta citando un atto, “la vestizione del guerriero”: egli sa “come si fa” per averlo visto fare ad Achille tante volte, ma il gesto che ne risulta è debole (manca l’asta di Achille) e la sua efficacia apparente. Armato, Patroclo si mostra come guerriero, ma tutto ciò che può ottenere è la riconoscibilità di una forma visiva: è una forma-di-guerriero. Le armi restano per Patroclo sostanzialmente estranee, come non sono per Achille e come non saranno per Ettore. Egli le usa in via “emergenziale”, a scopo deterrente, per essere visto. Il suo scopo non può essere quello del combattimento faccia e faccia, può essere soltanto quello di tenere lontani i nemici, di presidiare le navi, delimitare e tenere al sicuro un certo spazio, quello in cui Achille è confinato, difendere dall’aggressività nemica la fonte della propria identità “angelica”. Un fenomeno che i linguistici chiamano "automarcatura".

Si può leggere dunque la differenza fra Patroclo e Achille rispetto alle armi come differenza fra le armi indossate come insegne di una autorità capace di conferire valore normativo; e le armi usate per essere osservati. Questo secondo uso è reso necessario dal rifiuto di Achille di usare le sue armi nel primo senso: un rifiuto in cui collidono i due aspetti della sua techne di guerriero: la difesa della città assediata, del bottino, la guerra come corpo a corpo col nemico, - ed è l’asta a esprimere bene questa idea della guerra come relazione, come fronteggiarsi - e l’idea della guerra come occasione di trionfo personale, di gloria individuale.

Cerchiamo di trarre qualche conclusione. Che tipo di comunicazione è possibile fra Patroclo e Achille? L’episodio di Patroclo mostra, a mio avviso, il pericolo insito nell’identificazione, anzi il limite stesso dell’identificazione empatica. Quando la trasmissione dei comportamenti è verticale, quando cioè la relazione normativa avviene fra membri diversamente dislocati nella comunità (Achille, l’eroe guerriero e Patroclo, l’angelos) l’identificazione empatica è letale. In questi casi, quando cioè è autorevole soltanto colui il quale è intermediario rispetto alla fonte divina (il padre, gli antenati, Achille, Agamennone), l’individuo singolarmente considerato, al di fuori della catena verticale di trasmissione, non ha alcuna autorità, non può “armarsi”, non può salvarsi né resistere allo straniero, può solo travestirsi. 

Ciò equivale a dire che, non essendo possibile menzionare le parole di un'altra persona senza diventare quella persona per lo spazio della imitazione, ed essendo al contempo impossibile una identificazione totale fra individui socialmente diversi, il discorso non si può staccare dal suo produttore, non può circolare liberamente ed essere usato laddove è necessario. 

La separazione fra regno e governo, per l’autore dell’Iliade, è nefasta e mortifera.

venerdì 27 giugno 2025

I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multiforme, ambiguo, duttile, imprevedibile, cangiante, non scolpito a grandi tratti, una volta per tutte»; Achille, l’eroe dell’Iliade, ha sempre suggerito l’idea della staticità, «eroe tutto d’un pezzo, compiuto in sé»: il suo profilo omerico parve a Milman Parry eminentemente tragico, nel suo isolamento e nella sua estraneità al mondo.  Mille fittizie identità, e annessa raccolta di nomi, patrie, genealogie, peripezie, possono tuttavia denunciare una cieca ostinazione, una fedeltà talora inutile alla “via dell’inventiva”, alla riluttanza a dichiarare la propria identità: Odisseo mente al padre quando ormai la strage dei pretendenti è compiuta, e mente a Penelope quando sia Telemaco che Euriclea sanno chi egli sia; una traiettoria la sua, in definitiva, non meno rigida di quella con cui Achille avanza, nell’Iliade, verso il suo destino di morte. Odisseo può essere svelato e riconosciuto soltanto risalendo indietro nel tempo, al “letto inamovibile”, ai tredici peri, dieci meli e quaranta fichi ricevuti fanciullo dal padre, i segni certi della sua identità rispetto ai quali il resto è invenzione e varietà; Achille proietta la sua identità avanti nel futuro, nella esemplarità conclusa e rotonda del suo essere eroe. E tuttavia, in questo suo profilo scultoreo, Achille subisce più di una trasformazione e anzi almeno quattro sono i corpi, le pose – per restare al lessico scultoreo - con cui l’eroe dell’Iliade attraversa il poema della sua ira.

La prima è seduta:

(…) seduto presso le navi che vanno veloci, era irato

Il figlio divino di Peleo, Achille piede rapido.

Mai all’assemblea si recava, gloria degli uomini,

mai alla guerra; e consumava il suo cuore,

li fermo 

(Iliade, I 488)

Il secondo corpo di Achille è dritto in piedi, eretto.

Achille caro a Zeus balzò in piedi; Atena intorno

alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,

e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube

d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.

(Iliade, XVIII 203-206)

Come dobbiamo immaginare questo nuovo habitus? È la posa dei kouroi arcaici, dritti su entrambe le gambe, corpo e testa eretti verticalmente e rivolti all’osservatore? Non proprio. 

Achille orto dice il testo omerico: «balzò in piedi» traduce Rosa Calzecchi Onesti. Il movimento rende visibile la forza del corpo, il suo sollevarsi con le proprie forze contro la forza di gravità: è qualcosa di simile, ante litteram, al “contrapposto” o alla “ponderazione” della statuaria severa e classica. Egli è disarmato, e tuttavia provoca una fortissima reazione emotiva negli astanti. Si tratta di una vera e propria “epifania”, propiziata da Atena: tutti, animali e uomini, lo vedono e sentono la sua voce «bronzea»:

A tutti balzò il cuore; ed ecco i cavalli dalle belle criniere

subito voltarono i carri; dolori previdero in cuore;

gli aurighi inebetirono, come videro il fuoco indomabile

tremendo, sopra la testa del Pelide magnanimo

ardente (…)

(Iliade, XVIII 223-227)

L’ultima immagine di Achille è armata, con l’asta paterna, grande, pesante, solida: 

nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva,

faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,

dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri

(Iliade, XVI 141-144).

E con la panoplia fabbricata da Efesto. Così armato, Achille ha il chiarore della luna:

Come quando splende in mare ai naviganti il chiarore

d’un fuoco acceso, ch’arde in alto sui monti

in una stalla solinga; e i turbini loro malgrado

li portano sul mare pescoso, lontano dagli amici;

così saliva all’etere il lampo dallo scudo d’Achille;

bellissimo, adorno.

(Iliade, XIX 373-380)

A queste immagini dobbiamo aggiungerne una quarta, un guerriero che sembra Achille, indossa le sue armi – gli «schinieri belli, muniti d’argentei copricaviglia», «la corazza a vivi colori, stellata», «la spada a borchie d’argento, bronzea, e lo scudo grande e pesante», «l’elmo robusto, con coda equina» - ma non è Achille. Non appena i Troiani lo vedono, scintillante nelle armi:

A tutti il cuore fu scosso, le file si scompigliarono,

credendo che presso le navi il Pelide piede rapido

avesse smesso l’ira, ripresa l’amicizia.

Ciascuno spiava dove potesse fuggire l’abisso di morte

(Iliade, XVI 280-283)

Quattro corpi diversi dunque, quelli di Achille, che si dispongono sul crinale di una secca alternativa: vestire le armi o non vestirle; combattere o apparire ai combattenti; balzare in piedi o stare seduto; isolarsi o partecipare. Ma, anche, che sperimentano di ogni scelta due possibili varianti. Combattere: per interposta persona o in proprio nome; non mischiarsi agli altri: muto o urlando con voce sonora.

Fra questi quattro corpi il più interessante è il primo. Seduto.

Exekias, Achille e Aiace giocano a dadi, anfora da Vulci, 540-30 a.C., Museo Gregoriano Etrusco

È molto interessante osservare che, per illustrare il momento iliadico in cui Achille non combatte, i ceramografi lo dipingono intento a giocare a dadi, seduto. Il tema, ignoto all'epos, è un'invenzione dei ceramografi, che si staccano dal testo omerico ma restano fedeli alle sue intenzioni comunicative e ci restituiscono l'immagine del guerriero che non combatte, "inutile". Una variazione del mitologema del "re pescatore", un re ferito e impotente, al quale non resta che stare seduto su una barca dilettandosi con la pesca?
Rivolto a Patroclo, inviatogli da Achille per avere notizie sull’andamento della guerra, Nestore commenta il ritiro di Achille dalla guerra e afferma con asprezza che «egli solo trarrà utilità dal suo valore; eppure io
credo/che avrà da piangere molto, quando sia massacrato l’esercito» e lo stesso Patroclo, nel riferire le parole di Nestore vi aggiunge un’amara interrogazione: «in cosa un altro avrà utilità da te, anche un tardo nipote,/ se non difendi gli Argivi dalla rovina obbrobriosa?» 
Morto Patroclo, Achille vede se stesso seduto presso le navi, come «inutile peso della terra», benché forte in guerra quanto nessun altro. 
Ancora più eloquente è un'altra celebre iconografia di Achille seduto: una kylix del Pittore di Briseide illustra il momento in cui Achille è privato della schiava.



La scena raffigura la giovane nel momento in cui viene prelevata dalla tenda, mentre Achille seduto è avvolto da un mantello da cui sporgono appena gli occhi e la fronte dell’eroe. Lo stesso atteggiamento, seduto e avvolto dal mantello, è tenuto da Achille nell’episodio, illustrato da molti ceramografi, dell’ambasceria che gli Achei capeggiati da Odisseo inviano per convincerlo a riprendere la guerra, nel nono libro dell’Iliade. Nel cratere del Pittore di Eucharides, Achille e Odisseo sono seduti l’uno di fronte all’altro, con Achille piegato e imbacuccato. Questa iconografia di Achille, ammantato, con la testa reclinata e appoggiata alla mano è abbastanza comune in opere collocabili fra il 500 e il 470 a.C. 

Da notare il mantello. In Omero non c'è traccia di ciò.
Il capo velato è comunemente associato alle donne: la fanciulla e la donna greca portano di regola il velo a coprire volto e capo, sebbene possano in talune situazioni toglierlo. Spesso la donna è mostrata nel gesto di velarsi o svelarsi, cosicché il velo femminile è legato al movimento, alla comunicazione: è luminoso, trasparente, per nulla opaco e, nella pittura vascolare è raramente statico. Anche gli uomini sono talvolta mostrati nel gesto di velarsi, per coprire il volto contratto dalla commozione e segnato dal pianto. In questi casi lo scopo è nascondere alla vista altrui la colpa e la vergogna.
Nascondere lo sguardo o nascondersi allo sguardo?
Se guardiamo alla serie di riferimenti a dolore, colpa, vergogna, commozione e alla serie di posture, seduti, con la testa appoggiata alla mano, avvolti nel mantello - elementi che nell'iconografia sono talvolta riuniti e talvolta no - è difficile trovare una corrispondenza biunivoca fra il gesto e il sentimento individuale; ma forse è possibile individuare una situazione comunicativa, che coinvolge la corporeità non dell’individuo singolo ma degli individui che comunicano, a cui quei gesti si riferiscono. 

Achille appare ammantato in due episodi che hanno in comune la pertinenza al nucleo narrativo principale dell’Iliade - l’ira dell’eroe e il suo rifiuto della battaglia - in due momenti salienti: quello in cui essa ha inizio, con la contesa fra l’eroe e Agamennone e quello in cui è ormai irreversibile e Achille resta sordo alle argomentazioni di Odisseo. Dal punto di vista dei sentimenti di Achille si tratta, come ha notato Settis, di “ira” e “corruccio”, ma il mantello che avvolge l’eroe esprime qualcosa anche dal punto di vista della comunicazione, della interazione fra Achille e Agamennone e fra Achille e Odisseo.

Osserviamo per esempio la raffigurazione vascolare del confronto fra Achille e Odisseo, nel cratere di Eucharides.



Achille è avvolto in un mantello, la stoffa si dispone in giri e pieghe intorno al corpo dell’eroe, dalla testa giù fin quasi ai piedi, paralleli e poggiati a terra. Odisseo è nudo, il mantello aperto sul torace, le gambe accavallate, il ginocchio stretto dalle due mani. Il gesto di tenere le gambe accavallate può essere variamente interpretato: secondo Franzoni dall’età classica in poi potremmo comporre un doppio catalogo: quello delle gambe accavallate attribuite a figure ‘negative’, quello in cui lo stesso gesto è problematico o addirittura può assumere valenze positive. Come già per il gesto del velarsi, anche il gesto dell’accavallare le gambe non pare legarsi ad un preciso sentimento personale.

Invece di guardare alle due pose separatamente, consideriamo allora l’intera scena: la posa di Odisseo, dinamica, è l’opposto di quella di Achille, impedito nel movimento. Il mantello aperto dell’uno si chiude sull’altro e sembra quasi intrappolarlo. Lo stesso stare seduti è diverso: la posa di Odisseo suggerisce rilassatezza ma anche possibilità di movimento, i piedi sono liberi da impacci e lontani l’uno dall’altro, occupano porzioni diverse dello spazio. Ad Achille invece il movimento ampio e libero di Odisseo pare precluso, non è fisicamente possibile. I due eroi, benché condividano il medesimo spazio, sono estranei l’uno all’altro, per nessuno dei due è possibile comprendere l’altro, partecipare dei suoi movimenti. Sono reciprocamente invisibili. 
Ma ciò che è davvero significativo è che ciascuno di essi, a suo modo, sta compiendo la stessa azione.

Pensare.

In un film di Carlo Verdone di qualche anno fa, c’è un dialogo fra il protagonista Ernesto, interpretato dallo stesso Verdone, e Fulvio un conduttore radiofonico, interpretato da Claudio Bisio. Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, che viene sconvolta dall’arrivo di Cecilia, una ragazza molto più giovane di lui, abbandonata dal padre da piccola, e con la quale egli inizia una intensa relazione. In una scena del film, per nascondersi alla vista dei vicini, i due, sulla terrazza di un palazzo popolare, con i fili del bucato e i panni appesi, si nascondono sotto un lenzuolo. Ed ecco perché, tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta a Fulvio in diretta radiofonica, la fine della storia:

Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so... Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel
giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’
infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi
recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco
il cervello / se non la smetto di ricordare’".

Nel film, vediamo Ernesto che si ricopre con il lenzuolo. 

Fotogrammi del film “Manuale d’amore 2 – Capitoli successivi”, di Giovanni Veronesi.


Fuori di lui, il mondo continua con le sue rassicuranti abitudini; dentro lo spazio del lenzuolo, Ernesto ricorda la ragazza che ha amato, recitando la poesia da lei composta. I due spazi, separati, esistono entrambi. Ma uno – quello del ricordo, che può esistere soltanto nel pensiero – può a sua volta esistere sol-
tanto sospendendo temporaneamente l’altro (“ogni tanto”). Ernesto, velandosi, sospende la sua esistenza di marito fedele ed entra in risonanza con una parte profonda del pensiero, in cui egli rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia.

Le immagini dunque non illustrano né descrivono il testo omerico. Lo traducono in una diversa grammatica: stare seduti, con le gambe incrociate o avvolti nel mantello sono modi diversi di interrompere l'azione, momentaneamente impossibile, e pensare (o dare conto della propria momentanea inutilità, giocando). Modi diversi non rispetto al grado di integrazione del pensatore nella realtà circostante, ma modi diversi di pensare l’uno rispetto all’altro, nel caso - rarissimo - di pensatori che condividono lo stesso spazio figurativo. 

Per concludere: il pensatore solitario e silente, avvolto nel mantello, è separato dalla scena che si svolge intorno a lui, come è separato da un altro pensatore che condivida il suo spazio; altrettanto vale per il pensatore in precario equilibrio, con le gambe incrociate. Entrambi in qualche modo inaccessibili, l’uno invisibile e nascosto dal mantello, l’altro doppiamente “annodato” dall’incrocio delle gambe e delle braccia: Achille e Odisseo sono inaccessibili l’uno all’altro.

Su Odisseo: Nicosia, S. (2003). L'identità di Ulisse. In S. Nicosia (A cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita. (p. 9-21). Padova: Marsilio.
Sul "re pescatore": Agamben, G. (2009). Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Torino: Bollati Boringhieri
Su kouroi e korai: Fehr, B. (1996). Kouroi e korai. Formule e tipi dell'arte arcaica come espressione di valori. In S. Settis (A cura di), I Greci. Storia cultura arte società. I Greci. 2. Una storia greca. I. Formazione.
Su Achille 'imbacuccato': Franzoni, C. (2006). Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell'arte greca. Torino: Einaudi.(p. 785-843). Torino: Einaudi.
Sull'inutilità di Achille:Gilli, G. (1988). Origini dell'uguaglianza. Ricerche sociologiche sull'antica Grecia. Torino: Einaudi.

giovedì 5 giugno 2025

Abiti di scena nell'Odissea: vestiti, stracci e cambi d'abito vari di Odisseo

Cratere del Pittore di Persefone
Cratere del Pittore di Persefone, al MET, con varietà di abiti maschili e femminili

L’Odissea è un poema disseminato di vesti: ogni figura femminile - Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope - ha ovviamente abiti e ornamenti convenienti, di altri personaggi è minuziosamente descritto l'abbigliamento, ma sorprendentemente è Odisseo a sfoggiare una gran quantità di 'outfit'. Chi viene dalla lettura dell'Iliade, in cui ci si veste e ci si spoglia quasi solo di armi - la scena della vestizione delle armi da parte dell'eroe è una delle cosiddette scene tipiche, di repertorio - può restarne sorpreso.

Perché  questa insistenza? 

Non si tratta di semplici dettagli descrittivi: ogni cambiamento nello stato di Odisseo è accompagnato da un cambio di abito. Questo schema, messo in evidenza in un articolo di qualche anno fa da Pietro Giammellaro (Coperto di misere vesti. Forme del vestire e codici di comportamento nel racconto omerico di Odisseo mendicante) è particolarmente evidente a partire dal libro V, e costruisce un filo nascosto che attraversa tutto il poema. Quando Odisseo lascia l'isola di Calipso, la dea lo riveste con vesti profumate, quasi cerimoniali: un addio che sembra un rito di sepoltura, un allontanamento dalla vita divina per rientrare, mortalmente, nella storia. Ma è Ino-Leucotea a suggerirgli di togliere quelle vesti, perché lo appesantiscono e rischiano di farlo annegare: il corpo, per salvarsi, deve spogliarsi dei doni. Riceve invece un velo, un oggetto minimo, che non copre ma protegge. 

È il primo oggetto non-identitario che consente a Odisseo di proseguire: Odisseo lo accetta dopo qualche riluttanza. 

Arrivato a Scheria, Odisseo è nudo. Non ha più nulla: né abiti, né nome, né titolo. Si presenta a Nausicaa come supplice, e la richiesta che fa è precisa: cibo, riparo, e vesti. Lì inizia un nuovo ciclo. Il dono degli abiti è il primo atto della sua reintegrazione nella parola e nella comunità. Ma sono abiti non propri, abiti da ospite.

Da quel momento, l'abito diventa sempre più centrale nella narrazione. Quando torna a Itaca, Odisseo viene trasformato da Atena: la dea gli indurisce la pelle, gli leva i capelli, gli toglie lo sguardo. Lo veste con cenci sudici, pelli spelacchiate, una bisaccia rotta. L'eroe deve svanire nella scena, per poterla osservare. Non è un inganno, ma una posizione. E proprio in quel travestimento affronta il mendicante-rivale Iro, assiste alla scena dei Proci, si fa riconoscere lentamente.

Compiuta la strage, Odisseo chiede che gli siano portati zolfo e fuoco, per pulire e purificare la vasta sala dove dove è avvenuta la carneficina dei Proci. La nutrice Euriclea gli risponde: 

"Sì, questo, creatura mia, tu l'hai detto a proposito.

Però anche tunica e manto porterò, buone vesti,

che così tu non stia, coperto l'ampie spalle di stracci,

qui nella sala: vergogna sarebbe".

Ma Odisseo prende tempo: "prima il fuoco".

Così quando Penelope scende dalle sue stanze, avvertita che Odisseo è tornato, non lo riconosce ("perché son sporco, e brutte vesti ho sul corpo" spiega Odisseo al figlio). E così finalmente Odisseo si lava e si riveste condecentemente. 

Tuttavia, non è questo l'ultimo abito di Odisseo! Infatti, riconosciuto dalla moglie, riappropriatisi entrambi dei "diritti del letto", Odisseo veste le "armi belle" perché è da eroe e da guerriero che deve concludersi il suo viaggio con una battaglia iliadica fra la "casa" di Odisseo e i parenti degli uccisi. Odisseo, che aveva preferito l'astuzia e lo stratagemma al combattimento corpo a corpo, l'arco e le frecce alla corta spada e all'asta, deve stavolta combattere da eroe e da re. Finché Zeus non lo ferma.

Ricapitoliamo: tutti gli abiti fino a un certo punto sono doni: di Calipso, di Ino, dei Feaci, di Atena, di Penelope (che aveva fornito quelli della partenza). Non esiste un momento in cui Odisseo scelga da solo cosa indossare: è curioso... Il suo corpo è sempre allestito da altri. 

L’unico gesto di rifiuto è il gettare le vesti divine. 

E anche questo, per essere compiuto, ha bisogno di un suggerimento esterno. L’abito è sempre linguaggio: altrui o proprio.

Le vesti offerte da Calipso, profumate e solenni, segnano un rito di passaggio dalla condizione divina alla condizione umana. Subito dopo, quelle stesse vesti diventano un ostacolo: nella tempesta mandata da Poseidone, sono proprio gli abiti a rischiare di ucciderlo, trasformandosi in zavorra. Il gesto di spogliarsi, suggerito da Ino, è il primo atto di autonomia: è necessario disfarsi di un’identità in prestito. Il velo ricevuto in cambio non definisce, non qualifica, ma sostiene: è un oggetto neutro, uno strumento di transizione.

La nudità, al momento dell’arrivo presso i Feaci, rappresenta la condizione zero: il naufragio dell'identità. Questo è confermato da molte altre scene di Odisseo fra i Feaci, che lo irridono: non sembra affatto un atleta, un mercante piuttosto, uno attento al guadagno, ignaro dello stile di vita aristocratico, del canto, della gara atletica, della guerra! 

Il travestimento, poi: un abito, sporco e degradato, per permettergli di agire in incognito nella sua stessa casa. Per mettere in scena il contrasto fra il falso re (i Pretendenti, scialacquatori e impudenti) e il vero re (Odisseo, il re di miseria, "coperto di misere vesti", ma anche Laerte, suo padre che si è lasciato andare per l'assenza del figlio e indossa una misera tunica). Un tema antico che percorre tutta l'ultima sezione del poema e che non sarebbe possibile esplorare senza il linguaggio dell'abito. 

Questa progressione dunque - dall’identità imposta all’identità scelta, attraverso il rifiuto, la nudità e il travestimento - è una delle strutture profonde del poema. 

E si gioca tutta sul corpo vestito, spogliato, travestito, rivestito.

Fino alla riappropriazione (ma forse meglio: costruzione) dell'identità: re e guerriero. In armi. 

(ma com'era vestito alla partenza? Penelope lo chiede al finto indovino - in realtà Odisseo stesso - come prova del fatto che egli abbia davvero conosciuto il marito. Ed ecco cosa risponde il finto indovino: 

"Un mantello purpureo, di lana, il chiaro Odisseo aveva,

doppio; e in esso gli era forgiato un fermaglio d’oro,

con doppia scanalatura, e v’era un cesello davanti:

nelle zampe anteriori, un cane teneva un cerbiatto screziato

e lo guardava dibattersi. E tutti ammiravano

come, pur essendo essi d’oro, l’uno cercasse di strozzare il cervo

e questo, bramando scappare, scalciasse coi piedi.

E notai la sua tunica, che sulla persona splendeva

come un velo di cipolla secca:

era delicata così, e come il sole era lucente")


Lessico essenziale dell'abbigliamento greco (omerico):

  • χιτών (chitōn): tunica, abito di base. Indossato da uomini e donne, era costituito da un telo quadrangolare, tagliato e cucito sul lato lungo e sulle spalle, con le maniche applicate o ricavate dall'ampiezza del telo; oppure pieghettato in modo da adattarsi al corpo. Si poteva indossare con o senza cintura. Era lungo fino ai piedi oppure più corto, specialmente per gli uomini

  • ἰμάτιον (imátion): mantello, spesso simbolo di status. Era un telo quadrangolare avvolto intorno al corpo in modo che un lembo ricadesse sulla schiena

  • πέπλος (peplos): drappo femminile. Era indossato solo dalle donne. Consisteva in un telo quadrangolare cucito lungo il lato lungo e ripiegato in modo da formare una balza, fermato sulle spalle con fibbie e spilloni

  • ζωνή (zōnē): cintura

  • σάνδαλον (sandalon): sandali. Erano il tipo di calzatura più comune, formata da una suola di cuoio fermata al piede con lacci o cinturini di varia foggia.

  • ἐσθής (esthes): veste, di tessuto prezioso, data in dono, delicata e lucente.

  • εἵματα (eimata): abiti, di qualsiasi foggia.

  • λώπη (lope): ampio mantello di pelle in forma di cappa (solo in Omero).

  • ϕαρος (pharos): sciarpa, stola di stoffa fine.

  • λαῖφος (laiphos): straccio, indumento dei mendicanti

  • ῥάκος (rakos): straccio, cencio, scampolo di stoffa

  • ῥόπαλον (ropalon): bastone del mendicante.

  • πήρη (pere): bisaccia.

Fonte: A. Perkidou-Gorecki, Come vestivano i Greci, Milano 1993.
Per approfondire: Department of Greek and Roman Art. “Ancient Greek Dress.” In Heilbrunn Timeline of Art History. New York: The Metropolitan Museum of Art, 2000–. http://www.metmuseum.org/toah/hd/grdr/hd_grdr.htm (October 2003)

domenica 18 maggio 2025

Intelligenza artificiale, deficit, società


I Greci, è noto, non hanno contribuito se non in minima parte allo sviluppo tecnologico. La Rivoluzione industriale non è partita da Atene, né da Alessandria. Tuttavia, il modo in cui noi tuttora guardiamo alla tecnica, il fatto stesso che usiamo una parola al singolare, è una costruzione culturale greca. 

Essa si riassume in un paradigma tanto semplice nella sua formulazione, quanto complesso e faticoso nel processo che lo ha prodotto:

DAI BISOGNI ALLE TECHNAI

Il paradigma mette in successione temporale e causale bisogni umani - fame, freddo, malattia, spostamento, comunicazione, tempo libero - e ritrovati che colmano e soddisfano quei bisogni: produzione di cibo, abiti, ripari, medicine, navi, scrittura, giochi. Siccome gli uomini sperimentano la malattia, allora i medici conoscono e applicano le cure per guarirli.

Le tecniche – agricoltura, architettura, navigazione, medicina etc. ci appaiono così – tuttora! - come naturalmente subordinate ai nostri scopi, our goals. 
Un esempio: nel dibattito pubblico recente è stata fortemente criticata la corsa delle scuole all’acquisto di tecnologie che non rispondevano ai loro bisogni, di cui non si sentiva l’esigenza, ed è stato indicato, anche nei vari documenti ufficiali del ministero - come percorso da seguire nella progettazione - quello di censire prima i bisogni e poi acquistare le tecnologie indispensabili in ordine ai bisogni individuati.

Una delle formulazioni più antiche del paradigma è nel Prometeo incatenato di Eschilo. La tragedia è un lungo scontro indiretto fra Prometeo e Zeus. Prometeo - espressione di un ordine arcaico soppiantato da Zeus e dal sistema olimpico - è colpevole di aver dato il fuoco agli uomini, contro il volere di Zeus. Ma Prometeo – come egli stesso rivendica - ha fatto anche altri doni all’umanità: il pensiero e la coscienza, la scrittura, la memoria, la medicina, la mantica. Nonostante vari tentativi fatti da intermediari, egli non cede a Zeus (al quale nasconde dei segreti) e per questo viene scagliato, insieme alla rupe a cui è incatenato, nel Tartaro, un burrone senza fondo. 

Eschilo, è bene dire, parteggia per Zeus ma mostra simpatia per Prometeo. Il loro scontro è tragico proprio nel senso che lo sconfitto non ha tutta la colpa e il vincitore non ha tutta la ragione. Ma l’ottica di Eschilo è conciliativa: le tecniche - di cui Prometeo è fiero portavoce - hanno diritto di cittadinanza nel nuovo ordine, olimpico.
Nei discorsi che egli fa con vari personaggi che si alternano al suo cospetto, Prometeo infatti si serve del paradigma di cui abbiamo detto per giustificare la sua azione oblativa (ma anche furtiva, immetodica e menzognera: ha infatti rubato il fuoco e ha distribuito malamente le technai): prima del suo intervento gli uomini erano bisognosi, poi hanno trovato sollievo alle loro carenze. 
Ogni techne, nel suo discorso, ha un corrispettivo bisogno che viene a colmare: 




Technai diverse fra loro trovano nell’essere subordinate ai bisogni una loro unità: il sistema delle technai si definisce così attraverso la positività che creano soddisfacendo bisogni. E questi bisogni sono bisogni di tutti, non desideri individuali, non condivisibili o dannosi per la collettività. Le technai sono dunque:
utili: prima di esse vi era una condizione negativa resa positiva dalle varie technai
razionali: esse portano ordine in un mondo confuso
Quello che vediamo all’opera in Eschilo, ma anche in Euripide, e poi con ampiezza in Platone è un tentativo inesausto di dettare le regole, di stabilire le condizioni per il dispiegamento delle technai, di costruire un meccanismo di controllo sociale delle technai. La numerosità di questi interventi regolatori, l’intensità della riflessione greca su questo tema ci dicono la grande preoccupazione che i greci avvertivano nei confronti del mondo delle technai, la minaccia che esse rappresentavano per la Società. 
Per quanto strano, inconsueto e inspiegabile ciò possa apparire, le technai – per diversi motivi – erano avvertite come pericolose e minacciose, a tal punto che nei Racconti delle Origini – cioè nei miti che inscenano la costituzione dell’uomo in società civile, come appunto il mito di Prometeo, la questione delle technai è centrale.
Se ampliamo lo sguardo, vediamo dunque, al di sotto del paradigma tradizionale un altro paradigma, nascosto, originario, che può essere rappresentato così:

LE TECHNAI contro LA SOCIETÀ

In esso le technai sono:
  • ingannevoli e opache: la loro emergenza è accolta con disfavore e scetticismo, la loro fonte è inaccessibile e misteriosa; 
  • praticate in modo smisurato dai loro portatori, che per esse sono distolti da altri più importanti obblighi sociali (per esempio, la guerra)
  • indifferenti alla salvezza o al guadagno: i technitai, i portatori di techne, possono talora praticare gratuitamente o addirittura in perdita la loro techne
  • non scelte dai loro portatori (sono ‘doni’ divini) e anzi talora subite dolorosamente e indivisibili da essi (non esiste in origine ‘la medicina’, ma i ‘medici,’ anche loro malgrado) 
  • naturali, innate, originarie rispetto alla Società (nei Racconti delle Origini, cioè nei miti che mettono in scena la nascita del consorzio civile, esse preesistono alla fondazione della Società, = sono frutto di ‘distribuzioni’ precedenti a quella di Zeus, definitiva. Nel mito di Prometeo raccontato da Platone, nel Protagora, Zeus deve intervenire dopo che Prometeo ha distribuito in modo diseguale le technai, per fare una nuova distribuzione egualitaria che consentisse la nascita della società civile)
  • causa di disuguaglianza: i campi di specializzazione tecnica sono innumerevoli, distanti fra loro e non integrati. 
  • indifferenti all’integrazione: ogni techne è autonoma dalle altre, ogni technita è isolato dagli altri e disinteressato all’apprendimento e all’insegnamento
  • non tutte utili né razionali (per esempio: la techne del furto o della menzogna, in cui eccelle Odisseo e la sua famiglia)
Per ognuno di questi punti elencati esiste un ricco dossier di testi ed esempi. Ho aggiunto una colonna alla tabella che mostrava il paradigma tradizionale, con (almeno) tre esempi di technai ‘originarie’ colte nel loro momento pre-societario e nella loro vocazione antagonista rispetto alla società, o meglio percepita come tale dalla Società. 




Anche questo paradigma nascosto ci è in qualche modo familiare. Esso non ha cittadinanza nel dibattito pubblico, ma non è sconosciuto all’esperienza privata. È quindi nel romanzo e nella letteratura che ne troviamo esempi. Gli esempi abbondano nella letteratura greca arcaica, da Esiodo a Teognide a Pindaro, ma ho scelto un esempio recente (corsivo mio).  

Ecco, per esempio, come Leonardo Sciascia parla di Ettore Majorana ne La scomparsa di Ettore Majorana: 

«Tra il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e “i ragazzi” cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”. Un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Majorana era un segreto dentro di sé, al centro del suo essere».

La letteratura greca è piena di riflessioni sul conflitto fra l’esperienza personale e privata della techne, esperienza totale, estetica, irrazionale, che procede per tentativi, per errori, che deborda fuori da ogni argine artificiale, e la sua ricezione nella società. 
La società costruisce argini, luoghi, detta tempi e scopi, detta regole, amputa, taglia, giudica.
La ricezione delle technai nella Società assume – come abbiamo intravisto - l’aspetto di un Giudizio di utilità. Viene richiesto ai portatori di techne un pacchetto di requisiti che, sulla base dalla separazione fra portatori di techne e techne stessa: la ‘medicina’, disciplinata e staccata da ‘i medici’, comprende: 
l’insegnabilità della techne
la sua subordinazione a bisogni societari, 
la sua organizzazione interna improntata a razionalità e congruenza fra mezzi e fini, 
l’integrazione della singola techne in un sistema. 

Il ‘processo’ alle technai assume – nelle fonti che ne lasciano trasparire l’esistenza - toni e lessico giudiziari. Al termine del processo, il pensiero greco ha costituito il corpus delle technai che tuttora conosciamo, con le regole che tuttora osserviamo – i medici ancora giurano di procedere per l’utilità del malato (una precisazione di cui non ci chiediamo più la ragione, a tal punto abbiamo dimenticato la possibilità di una medicina contro il malato, per sé stessa, per il suo progresso) come i medici ippocratici del V sec. a.C. – con le esclusioni e i dubbi che ancora condividiamo. Dubbi di ‘utilità’: è utile la techne retorica? Già se ne dubitava pochi decenni dopo la sua nascita e tuttora se ne dubita. 
***

Se questo è il quadro generale che ereditiamo dalla sistemazione greca, sopravvissuta nel Medioevo, recuperata nell’Umanesimo e infine assunta nella Rivoluzione Scientifica, ci tocca ora collocare l’intelligenza artificiale in esso.
Cominciamo col dire che, anche qui, pare che i Greci abbiano dettato (alcune) regole. Pur senza avere realmente la tecnologia dell’intelligenza artificiale, ma avendola immaginata. Omero, infatti, sembra aver immaginato molte moderne tecnologie, a partire da quel prototipo di schermo cinematografico che è lo scudo di Achille per arrivare all’Intelligenza Artificiale. 

Entriamo nel laboratorio dell’artefice per eccellenza: Efesto. 
Efesto è un dio, un metallurgo e un disabile, anche. La sua storia è molto particolare: intanto notiamo come fosse possesso di Efesto proprio quella tecnologia del fuoco che Prometeo aveva sottratto al dio per donarla agli uomini. Poi torneremo su altri particolari della sua biografia.
Nel XVIII libro dell’Iliade, a lui si rivolge Teti, perché forgi nuove armi per Achille. Achille ha perso le sue armi per averle prestate a Patroclo; vinto in battaglia da Ettore, costui è stato spogliato dell’armatura (non sua). Ora dunque Achille è ‘nudo’.
Quindi Teti, la madre di Achille, si reca nell’officina di Efesto, che Omero descrive con grande cura. 
Nell’officina di Efesto tutto ha l’aspetto – fantascientifico - dell’oggetto inanimato che prende anima e movimento. L’origine di questo automatismo risiede sia nel carattere divino dell’artefice, sia nel materiale stesso: il metallo. Tutto – dalla casa stessa, agli arnesi – è metallico: oro, argento, bronzo. Nella mitologia greca, ma anche in altre mitologie, la metallurgia è spesso accostata alla “meraviglia”, al prodigio, alla costruzione di oggetti con poteri straordinari. Ed Efesto è un artefice mitico, un metallurgo. 

Dice Musti: “Il greco mostra dunque di pensare e sognare l’automatismo degli oggetti inanimati, anche se non ne ha ancor ai messi e le capacità tecnologiche: non ha ancora il know how; ha però, potremmo dire, il know what!”

Rispetto agli oggetti metallici prodigiosi, in questo caso, abbiamo però a che fare con alcune peculiarità: gli oggetti presenti nel laboratorio di Efesto sono interamente automatizzati: al suo invito, i mantici si mettono a lavorare, soffiano e sbuffano – autoregolando l’intensità del refolo - per alimentare il fuoco. Da soli si muoveranno i tripodi, che egli sta costruendo, e andranno a illuminare l’assemblea divina per poi ritornare, da soli, a casa, con le proprie ruote d’oro. 
Ma più stupefacenti, di questa domotica divina, sono le ancelle di Efesto, che lo sorreggono (lui, zoppo) e che hanno “intelligenza” noos e “voce”, audè e “forza”, sthenos. “Simili a ragazze vive”, dice Omero. 
Sono oggetti che non si muovono per magia, ad un comando dell’artefice; non eseguono comandi. Non fanno cose che non potrebbero fare: non sono, per intenderci, i libri che volano nella valigia di mago Merlino. Si muovono grazie a dispositivi integrati pensati ad hoc: le ruote, per esempio.
Le ancelle sono simili a ragazze vive non nel senso di una semplice verosimiglianza figurativa; esse “sanno il lavoro”, sono programmate per svolgerlo. Omero non attribuisce la loro operatività ad una transustanziazione miracolosa o magica. Non sono state trasformate in persone e neanche lo saranno: non sono delle antenate di Pinocchio. 
Sono e restano di metallo, eppure parlanti e operanti. 
Sono Robots. Autòmatoi, in greco: oggetti che si muovono da soli perché sanno ciò che devono fare. L’officina di Efesto non ci parla delle macchine della Rivoluzione Industriale dell’800 con il loro seguito novecentesco, in cui l’uomo perde una parte del suo lavoro, cessa di essere il primo strumento di produzione; ci parla invece di Rivoluzione Digitale, di lavoro umano interamente sostituito dal lavoro delle macchine; qualsiasi tipo di lavoro umano. L’officina di Efesto è una one man company. Senza lavoro umano. Non vi sono macchine che relegano in posizione passiva l’essere umano, ma macchine prive di intervento umano. I mantici di Efesto non hanno bisogno di alcun intervento ulteriore. Le ancelle metalliche non necessitano di ordini specifici. 

Aristotele rimase colpito da questo passo dell’Iliade e argomentò che se fossero realmente esistiti gli automi, non vi sarebbe stato bisogno di lavoro schiavile o comunque dipendente. 
Fin dall’inizio, è dunque evidente il nesso fra intelligenza artificiale e sostituzione del lavoro umano. 
Ma è anche presente il ‘giudizio di utilità’ che pende sugli artefatti intelligenti. Essi sono indubbiamente utili: 
essi sono pensati per colmare il deficit dell’artigiano, sono strumenti compensativi. 
il complesso degli strumenti di AI è finalizzato a migliorare l’organizzazione del lavoro, a renderla più veloce ed efficiente.

Ne deriva un paradigma manifesto che possiamo così sintetizzare:

DAL DEFICIT NATURALE  ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Che riformula il paradigma nascosto 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE contro SOCIETÀ

Infatti, l’episodio di Efesto ci mostra indubbiamente, dal lato della Società, l’utilità delle technai: esse colmano un bisogno innegabile ed evidente. 
Ma, dal lato del loro portatore – Efesto – non ci dice forse qualcosa di più? 
In tutto l’episodio, Efesto ha alternato toni di estrema dolcezza nei confronti di Teti e toni di estrema rabbia Questa rabbia è rivolta principalmente contro la madre, Era, colpevole di averlo scaraventato giù dall’Olimpo a causa della sua deformità. proprio questa precipitazione è all’origine della sua solitudine e della sua abilità metallurgica: caduto in mare fu accolto da divinità marine dove rimase nove anni forgiando monili.
Ma, nei confronti della madre, Efesto usa altre volte toni e parole improntati a dolcezza. Nel libro primo dell’Iliade viene descritta una (delle molte) dispute fra Era e Zeus, ma 

Efesto, famoso per la sua techne, prese a parlare
Dolcezza portando alla madre sua, Era bianco braccio
E le consiglia di mitigare il suo atteggiamento verso Zeus:
(...) ma tu con dolci parole rivolgiti a lui:
e subito allora sereno e buono sarà l’Olimpio con noi 

La reazione di Era all’indole del figlio è contraddittoria: se sul momento sorride, rasserenata; pochi istanti dopo, quando Efesto proseguirà la sua opera mescendo il vino per gli dèi, e quindi muovendosi, ella, come tutti gli altri dèi, riderà di gusto allo spettacolo della zoppia del figlio. Una analoga configurazione troviamo in un episodio dell’Odissea, narrato dall’aedo Demodoco nella reggia di Alcinoo: 
La moglie di Efesto, Afrodite, ha una relazione segreta con Ares, il dio della guerra. Informato della tresca, Efesto decide di cogliere sul fatto gli amanti e fabbrica delle catene al tempo stesso resistenti e invisibili con le quali intrappola i due amanti, non appena questi si coricano sul letto in cui egli ha predisposto la trappola. Gli dèi convocati come testimoni dell’accaduto, non manifestano alcuna empatia per Efesto tradito, ma ne irridono la techne, evidenziandone – nei loro commenti – l’aspetto di inganno, di prodigio. Ad essere tematizzato, nell’episodio, non è affatto il tema del tradimento e dell’inganno che i traditori agiscono; ma quello della techne e dell’inganno che i traditori subiscono, ad opera di un artefice per di più minorato. 

Non può dunque essere un caso se, nel laboratorio di Efesto, laddove egli esercita la sua techne, vi sono macchine. E nemmeno può essere casuale – a mio avviso – che queste macchine intelligenti culminino in una serie di macchine ‘femmine’ (le ancelle d’oro, l’oro ci dice che esse sono l’invenzione migliore dell’intero set di macchine intelligenti), macchine che sostituiscono quella cura amorevole, femminile, materna e coniugale che Era e Afrodite non hanno svolto. Le ancelle d’oro non solo hanno voce e intelligenza e forza, ma soprattutto non tradiscono e non irridono, non gettano via e non abbandonano. I tripodi che vanno e vengono dalla casa degli dèi con ruote d’oro, a differenza dello zoppo Efesto quando fa il giro come coppiere, non corrono il rischio di essere derisi e insultati. I mantici che soffiano e sbuffano non conosceranno il degradante bisogno di lavarsi e asciugarsi il sudore. 

Possiamo ulteriormente precisare in che senso l’intelligenza artificiale che Efesto è in grado di dispiegare è avversa alla società: essa è costituzionalmente – per le caratteristiche del suo portatore, non attrezzato né fisicamente né psicologicamente alla lotta – inabile alla fabbricazione di armi offensive. Efesto fabbrica scudi, corazze, schinieri. Sempre e comunque armi protettive, compie interventi difensivi e ispirati alla prudenza. Progetta scudi e strumenti invisibili. Ogni suo discorso e azione sono improntati alla delicatezza, alla gentilezza. La sua techne è incompatibile con la guerra. 

E come può ciò essere un pericolo per la società?
Lo è. 

Sempre nell’Iliade, Zeus ingiunge ad un certo punto agli dèi di unirsi a uno dei due eserciti – acheo e troiano – secondo le proprie preferenze. L’ordine di Zeus, impartito con tutti i crismi (convocazione di concilio, ordine perentorio impartito con imperativo) fatica a essere adempiuto: gli dèi vorrebbero stare in disparte a osservare, piuttosto che prendere parte. Ma Zeus insiste. Bisogna prendere parte. Non importa per quale esercito si sceglie di parteggiare, purché si partecipi. Si tratta di uno schema societario ineludibile: appartarsi è un disvalore, prendere parte è un valore. Il conflitto è un valore societario: costringe a uscire dall’isolamento e a confrontarsi, la guerra è un rapporto che interrompe l’isolamento al quale i technitai come Efesto sono vocati. La techne di Efesto dovrebbe, se volesse entrare nell’ordine olimpico cioè politico, essere in grado di produrre armi offensive. 

Questo doppio paradigma 

DAL DEFICIT NATURALE  ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

che riformula il paradigma nascosto

INTELLIGENZA ARTIFICIALE contro SOCIETÀ

è pienamente operante nella storia recente dell’intelligenza artificiale, a partire da Alan Turing. 
Francesco Varanini, nel suo libro Le 5 leggi bronzee dell’era digitale, identifica due diverse genealogie, due linee di pensiero (e di azione) sull’intelligenza artificiale. Entrambe iniziano in qualche modo – preannunciate da Pascal – con Alan Turing. Varanini compie un lavoro di scavo nella personalità di Turing. Un lavoro umanistico. Cerca la motivazione che spinge Turing a progettare la sua macchina. Egli era mosso –-sostiene - dal bisogno di sostituire l’essere umano con la macchina: per Turing il computer deve/può sostituire (e quindi imita: the imitation game) il lavoro di una figura precisa: il contabile. Il computer riproduce gli states of mind del contabile. Li normalizza, li tiene sotto controllo. 
Turing - dice Varanini (p. 81) - vuole che la macchina sconfigga l’umano. 
Perché? Perché è mosso da un bisogno personale. Egli vuole scoprire, conoscere sé stesso attraverso la macchina. Per vari motivi, Alan Turing fu sempre una presenza imbarazzante nella sua stessa famiglia, cresciuto da genitori putativi, era un bambino silenzioso, soffriva la scuola, era distratto, sbadato, disadattato. In collegio è solo, il compagno di cui si innamora muore e la sua vita affettiva sarà sempre povera, senza piaceri. L’uomo con cui intreccerà una relazione lo deruberà dell’orologio d’oro del padre. Proprio questo furto mette in moto un’indagine la quale si concentra sull’omosessualità di Alan più che sul recupero della refurtiva. Il resto è noto. Sono i suoi ‘difetti’, la sua bruttura, il suo essere sbagliato che lo spinge a immaginare qualcuno che viva al suo posto; qualcuno perfetto, che viva senza soffrire. 

Ricapitoliamo le analogie ‘biografiche’ fra Efesto e Turing:
- esperienza del rifiuto, della svalutazione e della derisione
- virilità percepita come debole o deficitaria
- rapporto problematico con la sfera sessuale (tradimento)
- diversità (come sentimento personale e come addebito sociale)

Siamo dunque in presenza di vicende di degradazione e decadimento in cui aspetto fisico, ruolo marginale e loro origine rendono evidente una traiettoria negativa che rende plausibile l’esito: con Efesto e con Turing la macchina è preferita all’umano. Essa sostituisce l’interlocutore umano e colma il deficit dell’artefice. A conferma di quanto profonda sia l’incidenza di questi aspetti biografici nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, può essere citata l’autobiografia pubblicata nel 2000 da Eliezer Shlomo Yudkowsky. Strano, diverso, con un rapporto conflittuale con i genitori, dice lucidamente di sé: “Ho un deficit di hardware che crea una mancanza di energia mentale. Niente ha la meglio sull’hardware. Punto”. 

Ecco, dunque, la necessità di immaginare una macchina. 
L’esperienza tecnica, dunque, sembra aver trovato il modo di superare il giudizio di utilità senza perdere nulla del suo carattere per così dire ‘ricurvo’, di esperienza che ritorna sul soggetto e lo ricostruisce. E tuttavia, le preoccupazioni attuali che desta l’Intelligenza Artificiale ci dicono che il giudizio di utilità non è univoco: il deficit umano avvertito con tanta personale sofferenza dal tecnita – sofferenza del conflitto, incomprensione, fatica del lavorare: l’officina di Efesto è fatta per riprodurre e normalizzare gli stati mentali dell’artefice che non possono esprimersi attraverso movimenti perfetti - non è sentito come tale da ciascun membro della Società. Esso, con la connessa necessità di lavorare e con la risposta identitaria che il lavoro fornisce, è anche fonte di uguaglianza e di controllo sociale
Ma ci dice anche qualcos’altro: nel modello greco, sia quello nascosto che quello manifesto, le technai sono donate all’uomo dagli dèi, sono doni, ‘innate’ e addirittura biologicamente determinate. Platone riconosce una predisposizione naturale per l’esercizio di una techne, e secondo un’opinione abbastanza diffusa la techne è qualcosa di più, una attività quasi senza soggetto o, potremmo dire, costitutiva del soggetto o ancora che il soggetto subisce. Nelle technai, avviene come se non fosse l’uomo a scegliere una tecnica ed un percorso professionale, ma il contrario, e il soggetto non fosse che un mezzo. Il controllo aumenta nella versione manifesta del modello, che disciplina i doni e li rende fruibili e acquisibili. 
La techne di Efesto e quella di Turing invece non aumentano la gamma dei doni, non arricchiscono le discipline, non operano dalla parte dei goals (our goals) ma aumentano i soggetti, popolano il quadro delle distribuzioni originarie, che tradizionalmente vedeva uomini e animali nel ruolo di chi riceve e gli dèi nel ruolo di chi distribuisce, di altri soggetti. 
Anzi, di super-soggetti. Che non imitano la Natura (come le technai) ma l’uomo - the “imitation game” - ma senza replicarne i difetti. 
Più nuovi dèi che nuovi uomini. 

(

relazione tenuta al Convegno "Game of tech: intelligente o sociale? Educazione e Intelligenza Artificiale" Napoli, Dicembre 2023)



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