Noctua Notes
venerdì 3 ottobre 2025
Discorsi: forti e deboli
sabato 6 settembre 2025
Donne che leggono e scrivono: Saffo
domenica 13 luglio 2025
Oggetti personali e identità
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Achille cura la ferita al braccio sinistro di Patroclo. Kylix attica a figure rosse del Pittore di Sosias, datata intorno al 500 a.C |
Se l'identità di Odisseo è riposta anche negli abiti che indossa, l'identità di Achille risiede invece nelle armi.
La storia delle armi di Achille percorre per esempio, come una trama sommersa, tutto il poema dell’ira. Achille appare, a se stesso e agli altri eroi che combattono a Troia, come «forte quanto nessuno dei Danai chitoni di bronzo, in guerra». Questa forza viene declinata più precisamente dal fiume Scamandro, irato contro Achille come: «forza (…) prestanza (…) armi belle». Egli è dunque un guerriero, ma più precisamente un guerriero armato.
Le armi di Achille rivestono, in realtà, non solo una notevole importanza in tutto il poema, ma anche un ruolo decisivo nella stessa vita di Achille e nella sua decisione di combattere a Troia. Secondo una tradizione raccolta da Euripide e da Sofocle, per sfuggire al suo destino di morte, cui sarebbe andato incontro combattendo contro i Troiani – come profetizzato da Calcante – Achille avrebbe trovato rifugio alla corte di Licomede a Sciro, travestito da fanciulla. Odisseo, incaricato con Fenice di condurre l’eroe a Troia, trovatolo a Sciro fra le fanciulle del luogo, distribuì canestri e oggetti femminili mescolati ad armi: le fanciulle si precipitarono impazienti sugli ornamenti femminili, mentre Achille svelò la sua identità afferrando le armi. Secondo una versione differente del medesimo tema, fu invece il suono di una tromba e il fragore delle armi a far scoprire Achille: supponendo che il nemico fosse alle porte, Achille si sarebbe liberato degli abiti femminili e avrebbe afferrato la spada e lo scudo. Questi racconti, verosimilmente trattati dai poemi del “ciclo epico”, di cui abbiamo ben poco e assenti nell’Iliade (che però conosce la predizione di morte prematura di Achille in caso di partecipazione alla guerra di Troia), mostrano come l’identità di Achille sia fortemente legata alle armi.
Nell’Iliade, Achille veste dapprima la panoplìa che già era stata del padre Peleo, dono a quest’ultimo degli dei per le nozze con Teti. Sono dunque armi immortali,
(…) che i numi figli del Cielo
donarono al padre suo; ed egli al figlio le diede,
da vecchio; ma il figlio non invecchiò nell’armi del padre
Al suo carro sono aggiogati cavalli profetici, anch’essi divini e donati dagli dei a Peleo:
Xanto e Balío, velocissimi figli del vento Zefiro e dell’Arpia Podarghe.
A queste armi sembra legato un potere specifico: quando Ettore, dopo averle tolte a Patroclo morto, le indossa, Zeus in persona deve acconsentire a che le armi gli “si adattino”, entri in lui Ares e gli riempia le membra di vigore e di forza. La panoplìa è così descritta in un gruppo di versi formulari che illustrano la vestizione di Patroclo:
Prima intorno alle gambe si mise gli schinieri
belli, muniti d’argentei copricaviglia;
poi intorno al petto vestì la corazza
a vivi colori, stellata, dell’Eacide piede rapido.
S’appese alle spalle la spada a borchie d’argento
bronzea, e lo scudo grande e pesante;
sulla testa gagliarda pose l’elmo robusto,
con coda equina; tremendo sopra ondeggiava il pennacchio
Di essa fa parte pure un’asta:
grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva
brandirla, solo Achille a brandirla valeva,
faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,
dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri.
L’Iliade conosce altri di questi manufatti, opera di artigiani mitici, donati dagli dei a un mortale e alla sua discendenza. Il più celebre è certamente lo scettro di Agamennone, che ha un ruolo molto importante nell’Iliade. La sua funzione primordiale è quella del bastone del messaggero: lo scettro è l’attributo di un itinerante che avanza con autorità, non per agire ma per parlare. Esso:
(…) qualifica il personaggio che porta la parola, personaggio sacro, la cui missione è di trasmettere il messaggio d’autorità. È da Zeus che parte lo skeptron che, attraverso la catena dei detentori successivi, arriva ad Agamennone. Zeus lo dona come insegna di legittimità a quelli che egli designa perché parlino in suo nome (Benveniste).
La panoplìa di Achille ha un significato analogo. Medesima è la catena di trasmissione, medesimo è il rapporto fra donatori – Zeus, gli dei Uranii (se Agamennone ha un rapporto privilegiato con Zeus, Achille è infatti in relazione con più di una divinità, Teti, sua madre, Atena, Era, Efesto e in special modo con i messaggeri Iride ed Ermes) – e i donati. Sembra dunque che le armi divine di Achille siano l’attributo di colui che è investito dalla missione di «dar morte ai guerrieri». Chi le brandisce, agisce in nome degli dei, è ed animato da essi.
Lo scettro di Agamennone ha tuttavia un uso duplice: Agamennone lo detiene usualmente, ma i partecipanti all’assemblea lo tengono in mano a turno quando prendono la parola: è il dono di Agamennone, ma può essere temporaneamente acquisito da ciascuno dei capi achei. Lo scettro consente due modi differenti di configurare l’autorità che esso esemplifica: un modo permanente, che è quello di Agamennone, la cui identità fa tutt’uno con esso; un modo temporaneo, quello dei capi achei, che accedono all’autorità in un tempo e uno spazio determinati, quelli della parola assembleare. Una siffatta duplicità è presente anche nelle armi di Achille, sebbene diversamente organizzata: la panoplìa comprende infatti una parte – schinieri, corazza, spada, scudo, elmo – che può essere temporaneamente indossata da un portatore diverso da Achille.
A vestirla saranno, con esiti diversi, Patroclo ed Ettore.
Un’altra parte della panoplia, l’asta di faggio del Pelio, è invece legata indissolubilmente ad Achille: egli soltanto può legittimamente usarla «nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva». Ora, l’asta da combattimento è l’arma offensiva per eccellenza, è la dimostrazione del desiderio del guerriero greco, dell’oplita, di «avvicinarsi al nemico per trafiggerlo guardandolo in faccia». In questo, essa è profondamente diversa dall’arco e dalle armi da lancio, disprezzate dai Greci e considerate armi tipiche del guerriero barbaro o dei ragazzi non iniziati. È l’arma che esprime la superiorità morale del guerriero che affronta il nemico nel faccia a faccia.
Un primo momento di riflessione riguarda la possibilità di “prestare” le proprie armi. Nell’Iliade, il saggio Nestore, fallito ogni tentativo di persuadere Achille a partecipare alla battaglia, suggerisce a Patroclo di dare questo consiglio all’amico: se non vuole egli stesso partecipare alla guerra, mandi Patroclo, dia a lui le sue armi, cosicché i nemici, credendo di trovarsi davanti Achille, fuggano via dando momentaneo respiro agli Achei. Nestore conosce il potere delle armi di Achille, il loro potere evocativo e deterrente che vuole usare per difendere l’esercito in un momento di estremo pericolo. Patroclo dunque si reca dall’amico e gli illustra il pericolo imminente. Achille cede, ed ecco il suo piano: Patroclo vestirà le sue armi per difendere le navi dalla rovina, riconquistare la fama per Achille in modo che egli possa vedersi restituita la schiava e i doni. Ma egli non deve combattere, non deve guidare l’esercito. Morti Troiani e Achei, Achille e Patroclo - soli - si salveranno e avranno tutta la gloria.
Patroclo dunque obbedisce e veste le armi di Achille, ad eccezione dell’asta, che non può brandire: la superiorità morale del guerriero che combatte nel faccia a faccia non è – potremmo dire – il “suo” dono; egli può invece “vestire” l’armamento difensivo.
Ma può Patroclo - sul piano simbolico - indossare l’armatura da difesa di Achille? E per farne quale uso, se non può guidare l’esercito, come Achille gli ha ingiunto?
Anzitutto, occorre sottolineare che Patroclo è legato ad Achille da una particolare synousia, che Nestore ha suggestivamente evocato: ciò vuol dire che esiste fra i due un accordo che risiede nella comune esperienza esistenziale, ma che va anche al di là di essa. L’identità di Patroclo è infatti parzialmente coincidente con quella di Achille: essi condividono una certa disposizione alla difesa, alla cura difensiva. Achille, che è stato istruito nelle arti mediche da Chirone, è colui che si accorge con dolore della sofferenza degli Achei decimati dalla peste e che si impegna a proteggere Calcante se costui dirà la verità.
Anche Patroclo è votato alla cura e alla dedizione: questo aspetto del suo carattere è evidenziato proprio nell’episodio ora menzionato. Infatti fra i due momenti salienti, quello in cui egli riceve da Nestore il consiglio di vestire le armi di Achille e quello in cui egli, riferito ad Achille il colloquio e accordatosi con lui, ne veste infine le armi; fra questi due momenti c’è uno strano e incongruo intermezzo. Congedatosi da Nestore, che gli aveva fatto un quadro tragico delle ferite inferte agli eroi Achei, Patroclo incontra proprio un compagno ferito, devia dalla sua originaria a prioritaria missione (egli ha fatto anche fretta a Nestore, ricordandogli il carattere iroso di Achille, dal quale deve al più presto tornare) per portare soccorso al compagno, aiutarlo a rientrare nella sua tenda, assisterlo e trattenersi con lui fino all’ultimo momento utile, in cui finalmente si ricorda della missione da portare a compimento.
Come interpretare questa incongruenza narrativa?
È agevole leggere in questo intermezzo una puntualizzazione efficace della identità di Patroclo: egli è uomo della cura e dell’assistenza, dell’azione oblativa e disinteressata, che compie malgrado tutto, anche quando dovrebbe evitarla.
Questa sua azione oblativa fa tutt’uno con il ruolo di angelos, che egli riveste in conseguenza dell’inattività di Achille. L’angelos è una figura tipica della tragedia, ma rispecchia la pratica comune degli informatori, figure spontanee che convertono eventi in notizie e se ne fanno latori più o meno interessati; ovvero – come in questo caso – tramiti passivi di messaggi spediti da un emittente ad un destinatario. Questi ultimi possono poi essere latori di messaggi ingiuntivi, in tal caso saranno “araldi” professionali con prerogative speciali, o semplicemente informativi. L’ angelos ha di norma uno statuto subalterno, può essere un diretto dipendente o uno schiavo; egli deve – come Patroclo in effetti fa - ripetere fedelmente il messaggio dell’emittente, dopo averlo memorizzato.
Ricapitoliamo: Patroclo non ha una sua identità “personale” di eroe guerriero. Il suo statuto non lo consente: agendo, ascoltando, vedendo, parlando egli lo fa in nome e per conto di Achille. Il suo rapporto con Achille fa sì che egli possa materialmente vestirne, in modo credibile e verosimile, la panoplìa; non come un eroe vestirebbe la sua propria panoplìa di guerriero, bensì come qualcuno che condivida, partecipandovi, il “dono”, l’identità di colui che egli rappresenta. La forza guerriera, “dar morte ai guerrieri” che Achille legittimamente esercita e incarna, potendone evocare negli dei Uranii la fonte, non è accessibile direttamente a Patroclo (ma lo sarà per Ettore). Egli condivide, per la synousia con Achille che il suo essere angelos comporta, la vocazione alla difesa dei compagni attaccati e assediati dal nemico.
L’idea che la vestizione delle armi di Achille da parte di Patroclo suggerisce è quella linguistica della “citazione”: Patroclo sta citando un atto, “la vestizione del guerriero”: egli sa “come si fa” per averlo visto fare ad Achille tante volte, ma il gesto che ne risulta è debole (manca l’asta di Achille) e la sua efficacia apparente. Armato, Patroclo si mostra come guerriero, ma tutto ciò che può ottenere è la riconoscibilità di una forma visiva: è una forma-di-guerriero. Le armi restano per Patroclo sostanzialmente estranee, come non sono per Achille e come non saranno per Ettore. Egli le usa in via “emergenziale”, a scopo deterrente, per essere visto. Il suo scopo non può essere quello del combattimento faccia e faccia, può essere soltanto quello di tenere lontani i nemici, di presidiare le navi, delimitare e tenere al sicuro un certo spazio, quello in cui Achille è confinato, difendere dall’aggressività nemica la fonte della propria identità “angelica”. Un fenomeno che i linguistici chiamano "automarcatura".
Si può leggere dunque la differenza fra Patroclo e Achille rispetto alle armi come differenza fra le armi indossate come insegne di una autorità capace di conferire valore normativo; e le armi usate per essere osservati. Questo secondo uso è reso necessario dal rifiuto di Achille di usare le sue armi nel primo senso: un rifiuto in cui collidono i due aspetti della sua techne di guerriero: la difesa della città assediata, del bottino, la guerra come corpo a corpo col nemico, - ed è l’asta a esprimere bene questa idea della guerra come relazione, come fronteggiarsi - e l’idea della guerra come occasione di trionfo personale, di gloria individuale.
Cerchiamo di trarre qualche conclusione. Che tipo di comunicazione è possibile fra Patroclo e Achille? L’episodio di Patroclo mostra, a mio avviso, il pericolo insito nell’identificazione, anzi il limite stesso dell’identificazione empatica. Quando la trasmissione dei comportamenti è verticale, quando cioè la relazione normativa avviene fra membri diversamente dislocati nella comunità (Achille, l’eroe guerriero e Patroclo, l’angelos) l’identificazione empatica è letale. In questi casi, quando cioè è autorevole soltanto colui il quale è intermediario rispetto alla fonte divina (il padre, gli antenati, Achille, Agamennone), l’individuo singolarmente considerato, al di fuori della catena verticale di trasmissione, non ha alcuna autorità, non può “armarsi”, non può salvarsi né resistere allo straniero, può solo travestirsi.
Ciò equivale a dire che, non essendo possibile menzionare le parole di un'altra persona senza diventare quella persona per lo spazio della imitazione, ed essendo al contempo impossibile una identificazione totale fra individui socialmente diversi, il discorso non si può staccare dal suo produttore, non può circolare liberamente ed essere usato laddove è necessario.
La separazione fra regno e governo, per l’autore dell’Iliade, è nefasta e mortifera.
venerdì 27 giugno 2025
I quattro corpi di Achille
Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multiforme, ambiguo, duttile, imprevedibile, cangiante, non scolpito a grandi tratti, una volta per tutte»; Achille, l’eroe dell’Iliade, ha sempre suggerito l’idea della staticità, «eroe tutto d’un pezzo, compiuto in sé»: il suo profilo omerico parve a Milman Parry eminentemente tragico, nel suo isolamento e nella sua estraneità al mondo. Mille fittizie identità, e annessa raccolta di nomi, patrie, genealogie, peripezie, possono tuttavia denunciare una cieca ostinazione, una fedeltà talora inutile alla “via dell’inventiva”, alla riluttanza a dichiarare la propria identità: Odisseo mente al padre quando ormai la strage dei pretendenti è compiuta, e mente a Penelope quando sia Telemaco che Euriclea sanno chi egli sia; una traiettoria la sua, in definitiva, non meno rigida di quella con cui Achille avanza, nell’Iliade, verso il suo destino di morte. Odisseo può essere svelato e riconosciuto soltanto risalendo indietro nel tempo, al “letto inamovibile”, ai tredici peri, dieci meli e quaranta fichi ricevuti fanciullo dal padre, i segni certi della sua identità rispetto ai quali il resto è invenzione e varietà; Achille proietta la sua identità avanti nel futuro, nella esemplarità conclusa e rotonda del suo essere eroe. E tuttavia, in questo suo profilo scultoreo, Achille subisce più di una trasformazione e anzi almeno quattro sono i corpi, le pose – per restare al lessico scultoreo - con cui l’eroe dell’Iliade attraversa il poema della sua ira.
La prima è seduta:
(…) seduto presso le navi che vanno veloci, era irato
Il figlio divino di Peleo, Achille piede rapido.
Mai all’assemblea si recava, gloria degli uomini,
mai alla guerra; e consumava il suo cuore,
li fermo
(Iliade, I 488)
Il secondo corpo di Achille è dritto in piedi, eretto.
Achille caro a Zeus balzò in piedi; Atena intorno
alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,
e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube
d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.
(Iliade, XVIII 203-206)
Come dobbiamo immaginare questo nuovo habitus? È la posa dei kouroi arcaici, dritti su entrambe le gambe, corpo e testa eretti verticalmente e rivolti all’osservatore? Non proprio.
Achille orto dice il testo omerico: «balzò in piedi» traduce Rosa Calzecchi Onesti. Il movimento rende visibile la forza del corpo, il suo sollevarsi con le proprie forze contro la forza di gravità: è qualcosa di simile, ante litteram, al “contrapposto” o alla “ponderazione” della statuaria severa e classica. Egli è disarmato, e tuttavia provoca una fortissima reazione emotiva negli astanti. Si tratta di una vera e propria “epifania”, propiziata da Atena: tutti, animali e uomini, lo vedono e sentono la sua voce «bronzea»:
A tutti balzò il cuore; ed ecco i cavalli dalle belle criniere
subito voltarono i carri; dolori previdero in cuore;
gli aurighi inebetirono, come videro il fuoco indomabile
tremendo, sopra la testa del Pelide magnanimo
ardente (…)
(Iliade, XVIII 223-227)
L’ultima immagine di Achille è armata, con l’asta paterna, grande, pesante, solida:
nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva,
faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,
dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri
(Iliade, XVI 141-144).
E con la panoplia fabbricata da Efesto. Così armato, Achille ha il chiarore della luna:
Come quando splende in mare ai naviganti il chiarore
d’un fuoco acceso, ch’arde in alto sui monti
in una stalla solinga; e i turbini loro malgrado
li portano sul mare pescoso, lontano dagli amici;
così saliva all’etere il lampo dallo scudo d’Achille;
bellissimo, adorno.
(Iliade, XIX 373-380)
A queste immagini dobbiamo aggiungerne una quarta, un guerriero che sembra Achille, indossa le sue armi – gli «schinieri belli, muniti d’argentei copricaviglia», «la corazza a vivi colori, stellata», «la spada a borchie d’argento, bronzea, e lo scudo grande e pesante», «l’elmo robusto, con coda equina» - ma non è Achille. Non appena i Troiani lo vedono, scintillante nelle armi:
A tutti il cuore fu scosso, le file si scompigliarono,
credendo che presso le navi il Pelide piede rapido
avesse smesso l’ira, ripresa l’amicizia.
Ciascuno spiava dove potesse fuggire l’abisso di morte
(Iliade, XVI 280-283)
Quattro corpi diversi dunque, quelli di Achille, che si dispongono sul crinale di una secca alternativa: vestire le armi o non vestirle; combattere o apparire ai combattenti; balzare in piedi o stare seduto; isolarsi o partecipare. Ma, anche, che sperimentano di ogni scelta due possibili varianti. Combattere: per interposta persona o in proprio nome; non mischiarsi agli altri: muto o urlando con voce sonora.
Fra questi quattro corpi il più interessante è il primo. Seduto.
Exekias, Achille e Aiace giocano a dadi, anfora da Vulci, 540-30 a.C., Museo Gregoriano Etruscogiovedì 5 giugno 2025
Abiti di scena nell'Odissea: vestiti, stracci e cambi d'abito vari di Odisseo
L’Odissea è un poema disseminato di vesti: ogni figura femminile - Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope - ha ovviamente abiti e ornamenti convenienti, di altri personaggi è minuziosamente descritto l'abbigliamento, ma sorprendentemente è Odisseo a sfoggiare una gran quantità di 'outfit'. Chi viene dalla lettura dell'Iliade, in cui ci si veste e ci si spoglia quasi solo di armi - la scena della vestizione delle armi da parte dell'eroe è una delle cosiddette scene tipiche, di repertorio - può restarne sorpreso.
Perché questa insistenza?
Non si tratta di semplici dettagli descrittivi: ogni cambiamento nello stato di Odisseo è accompagnato da un cambio di abito. Questo schema, messo in evidenza in un articolo di qualche anno fa da Pietro Giammellaro (Coperto di misere vesti. Forme del vestire e codici di comportamento nel racconto omerico di Odisseo mendicante) è particolarmente evidente a partire dal libro V, e costruisce un filo nascosto che attraversa tutto il poema. Quando Odisseo lascia l'isola di Calipso, la dea lo riveste con vesti profumate, quasi cerimoniali: un addio che sembra un rito di sepoltura, un allontanamento dalla vita divina per rientrare, mortalmente, nella storia. Ma è Ino-Leucotea a suggerirgli di togliere quelle vesti, perché lo appesantiscono e rischiano di farlo annegare: il corpo, per salvarsi, deve spogliarsi dei doni. Riceve invece un velo, un oggetto minimo, che non copre ma protegge.
È il primo oggetto non-identitario che consente a Odisseo di proseguire: Odisseo lo accetta dopo qualche riluttanza.
Arrivato a Scheria, Odisseo è nudo. Non ha più nulla: né abiti, né nome, né titolo. Si presenta a Nausicaa come supplice, e la richiesta che fa è precisa: cibo, riparo, e vesti. Lì inizia un nuovo ciclo. Il dono degli abiti è il primo atto della sua reintegrazione nella parola e nella comunità. Ma sono abiti non propri, abiti da ospite.
Da quel momento, l'abito diventa sempre più centrale nella narrazione. Quando torna a Itaca, Odisseo viene trasformato da Atena: la dea gli indurisce la pelle, gli leva i capelli, gli toglie lo sguardo. Lo veste con cenci sudici, pelli spelacchiate, una bisaccia rotta. L'eroe deve svanire nella scena, per poterla osservare. Non è un inganno, ma una posizione. E proprio in quel travestimento affronta il mendicante-rivale Iro, assiste alla scena dei Proci, si fa riconoscere lentamente.
Compiuta la strage, Odisseo chiede che gli siano portati zolfo e fuoco, per pulire e purificare la vasta sala dove dove è avvenuta la carneficina dei Proci. La nutrice Euriclea gli risponde:
"Sì, questo, creatura mia, tu l'hai detto a proposito.
Però anche tunica e manto porterò, buone vesti,
che così tu non stia, coperto l'ampie spalle di stracci,
qui nella sala: vergogna sarebbe".
Ma Odisseo prende tempo: "prima il fuoco".
Così quando Penelope scende dalle sue stanze, avvertita che Odisseo è tornato, non lo riconosce ("perché son sporco, e brutte vesti ho sul corpo" spiega Odisseo al figlio). E così finalmente Odisseo si lava e si riveste condecentemente.
Tuttavia, non è questo l'ultimo abito di Odisseo! Infatti, riconosciuto dalla moglie, riappropriatisi entrambi dei "diritti del letto", Odisseo veste le "armi belle" perché è da eroe e da guerriero che deve concludersi il suo viaggio con una battaglia iliadica fra la "casa" di Odisseo e i parenti degli uccisi. Odisseo, che aveva preferito l'astuzia e lo stratagemma al combattimento corpo a corpo, l'arco e le frecce alla corta spada e all'asta, deve stavolta combattere da eroe e da re. Finché Zeus non lo ferma.
Ricapitoliamo: tutti gli abiti fino a un certo punto sono doni: di Calipso, di Ino, dei Feaci, di Atena, di Penelope (che aveva fornito quelli della partenza). Non esiste un momento in cui Odisseo scelga da solo cosa indossare: è curioso... Il suo corpo è sempre allestito da altri.
L’unico gesto di rifiuto è il gettare le vesti divine.
E anche questo, per essere compiuto, ha bisogno di un suggerimento esterno. L’abito è sempre linguaggio: altrui o proprio.
Le vesti offerte da Calipso, profumate e solenni, segnano un rito di passaggio dalla condizione divina alla condizione umana. Subito dopo, quelle stesse vesti diventano un ostacolo: nella tempesta mandata da Poseidone, sono proprio gli abiti a rischiare di ucciderlo, trasformandosi in zavorra. Il gesto di spogliarsi, suggerito da Ino, è il primo atto di autonomia: è necessario disfarsi di un’identità in prestito. Il velo ricevuto in cambio non definisce, non qualifica, ma sostiene: è un oggetto neutro, uno strumento di transizione.
La nudità, al momento dell’arrivo presso i Feaci, rappresenta la condizione zero: il naufragio dell'identità. Questo è confermato da molte altre scene di Odisseo fra i Feaci, che lo irridono: non sembra affatto un atleta, un mercante piuttosto, uno attento al guadagno, ignaro dello stile di vita aristocratico, del canto, della gara atletica, della guerra!
Il travestimento, poi: un abito, sporco e degradato, per permettergli di agire in incognito nella sua stessa casa. Per mettere in scena il contrasto fra il falso re (i Pretendenti, scialacquatori e impudenti) e il vero re (Odisseo, il re di miseria, "coperto di misere vesti", ma anche Laerte, suo padre che si è lasciato andare per l'assenza del figlio e indossa una misera tunica). Un tema antico che percorre tutta l'ultima sezione del poema e che non sarebbe possibile esplorare senza il linguaggio dell'abito.
Questa progressione dunque - dall’identità imposta all’identità scelta, attraverso il rifiuto, la nudità e il travestimento - è una delle strutture profonde del poema.
E si gioca tutta sul corpo vestito, spogliato, travestito, rivestito.
Fino alla riappropriazione (ma forse meglio: costruzione) dell'identità: re e guerriero. In armi.
(ma com'era vestito alla partenza? Penelope lo chiede al finto indovino - in realtà Odisseo stesso - come prova del fatto che egli abbia davvero conosciuto il marito. Ed ecco cosa risponde il finto indovino:
"Un mantello purpureo, di lana, il chiaro Odisseo aveva,
doppio; e in esso gli era forgiato un fermaglio d’oro,
con doppia scanalatura, e v’era un cesello davanti:
nelle zampe anteriori, un cane teneva un cerbiatto screziato
e lo guardava dibattersi. E tutti ammiravano
come, pur essendo essi d’oro, l’uno cercasse di strozzare il cervo
e questo, bramando scappare, scalciasse coi piedi.
E notai la sua tunica, che sulla persona splendeva
come un velo di cipolla secca:
era delicata così, e come il sole era lucente")
Lessico essenziale dell'abbigliamento greco (omerico):
χιτών (chitōn): tunica, abito di base. Indossato da uomini e donne, era costituito da un telo quadrangolare, tagliato e cucito sul lato lungo e sulle spalle, con le maniche applicate o ricavate dall'ampiezza del telo; oppure pieghettato in modo da adattarsi al corpo. Si poteva indossare con o senza cintura. Era lungo fino ai piedi oppure più corto, specialmente per gli uomini
ἰμάτιον (imátion): mantello, spesso simbolo di status. Era un telo quadrangolare avvolto intorno al corpo in modo che un lembo ricadesse sulla schiena
πέπλος (peplos): drappo femminile. Era indossato solo dalle donne. Consisteva in un telo quadrangolare cucito lungo il lato lungo e ripiegato in modo da formare una balza, fermato sulle spalle con fibbie e spilloni
ζωνή (zōnē): cintura
σάνδαλον (sandalon): sandali. Erano il tipo di calzatura più comune, formata da una suola di cuoio fermata al piede con lacci o cinturini di varia foggia.
ἐσθής (esthes): veste, di tessuto prezioso, data in dono, delicata e lucente.
εἵματα (eimata): abiti, di qualsiasi foggia.
λώπη (lope): ampio mantello di pelle in forma di cappa (solo in Omero).
ϕαρος (pharos): sciarpa, stola di stoffa fine.
λαῖφος (laiphos): straccio, indumento dei mendicanti
ῥάκος (rakos): straccio, cencio, scampolo di stoffa
ῥόπαλον (ropalon): bastone del mendicante.
πήρη (pere): bisaccia.
domenica 18 maggio 2025
Intelligenza artificiale, deficit, società
I Greci, è noto, non hanno contribuito se non in minima parte allo sviluppo tecnologico. La Rivoluzione industriale non è partita da Atene, né da Alessandria. Tuttavia, il modo in cui noi tuttora guardiamo alla tecnica, il fatto stesso che usiamo una parola al singolare, è una costruzione culturale greca.
Essa si riassume in un paradigma tanto semplice nella sua formulazione, quanto complesso e faticoso nel processo che lo ha prodotto:
DAI BISOGNI ALLE TECHNAI
Il paradigma mette in successione temporale e causale bisogni umani - fame, freddo, malattia, spostamento, comunicazione, tempo libero - e ritrovati che colmano e soddisfano quei bisogni: produzione di cibo, abiti, ripari, medicine, navi, scrittura, giochi. Siccome gli uomini sperimentano la malattia, allora i medici conoscono e applicano le cure per guarirli.
- ingannevoli e opache: la loro emergenza è accolta con disfavore e scetticismo, la loro fonte è inaccessibile e misteriosa;
- praticate in modo smisurato dai loro portatori, che per esse sono distolti da altri più importanti obblighi sociali (per esempio, la guerra)
- indifferenti alla salvezza o al guadagno: i technitai, i portatori di techne, possono talora praticare gratuitamente o addirittura in perdita la loro techne
- non scelte dai loro portatori (sono ‘doni’ divini) e anzi talora subite dolorosamente e indivisibili da essi (non esiste in origine ‘la medicina’, ma i ‘medici,’ anche loro malgrado)
- naturali, innate, originarie rispetto alla Società (nei Racconti delle Origini, cioè nei miti che mettono in scena la nascita del consorzio civile, esse preesistono alla fondazione della Società, = sono frutto di ‘distribuzioni’ precedenti a quella di Zeus, definitiva. Nel mito di Prometeo raccontato da Platone, nel Protagora, Zeus deve intervenire dopo che Prometeo ha distribuito in modo diseguale le technai, per fare una nuova distribuzione egualitaria che consentisse la nascita della società civile)
- causa di disuguaglianza: i campi di specializzazione tecnica sono innumerevoli, distanti fra loro e non integrati.
- indifferenti all’integrazione: ogni techne è autonoma dalle altre, ogni technita è isolato dagli altri e disinteressato all’apprendimento e all’insegnamento
- non tutte utili né razionali (per esempio: la techne del furto o della menzogna, in cui eccelle Odisseo e la sua famiglia)
relazione tenuta al Convegno "Game of tech: intelligente o sociale? Educazione e Intelligenza Artificiale" Napoli, Dicembre 2023)
Discorsi: forti e deboli
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