venerdì 27 giugno 2025

I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multiforme, ambiguo, duttile, imprevedibile, cangiante, non scolpito a grandi tratti, una volta per tutte»; Achille, l’eroe dell’Iliade, ha sempre suggerito l’idea della staticità, «eroe tutto d’un pezzo, compiuto in sé»: il suo profilo omerico parve a Milman Parry eminentemente tragico, nel suo isolamento e nella sua estraneità al mondo.  Mille fittizie identità, e annessa raccolta di nomi, patrie, genealogie, peripezie, possono tuttavia denunciare una cieca ostinazione, una fedeltà talora inutile alla “via dell’inventiva”, alla riluttanza a dichiarare la propria identità: Odisseo mente al padre quando ormai la strage dei pretendenti è compiuta, e mente a Penelope quando sia Telemaco che Euriclea sanno chi egli sia; una traiettoria la sua, in definitiva, non meno rigida di quella con cui Achille avanza, nell’Iliade, verso il suo destino di morte. Odisseo può essere svelato e riconosciuto soltanto risalendo indietro nel tempo, al “letto inamovibile”, ai tredici peri, dieci meli e quaranta fichi ricevuti fanciullo dal padre, i segni certi della sua identità rispetto ai quali il resto è invenzione e varietà; Achille proietta la sua identità avanti nel futuro, nella esemplarità conclusa e rotonda del suo essere eroe. E tuttavia, in questo suo profilo scultoreo, Achille subisce più di una trasformazione e anzi almeno quattro sono i corpi, le pose – per restare al lessico scultoreo - con cui l’eroe dell’Iliade attraversa il poema della sua ira.

La prima è seduta:

(…) seduto presso le navi che vanno veloci, era irato

Il figlio divino di Peleo, Achille piede rapido.

Mai all’assemblea si recava, gloria degli uomini,

mai alla guerra; e consumava il suo cuore,

li fermo 

(Iliade, I 488)

Il secondo corpo di Achille è dritto in piedi, eretto.

Achille caro a Zeus balzò in piedi; Atena intorno

alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,

e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube

d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.

(Iliade, XVIII 203-206)

Come dobbiamo immaginare questo nuovo habitus? È la posa dei kouroi arcaici, dritti su entrambe le gambe, corpo e testa eretti verticalmente e rivolti all’osservatore? Non proprio. 

Achille orto dice il testo omerico: «balzò in piedi» traduce Rosa Calzecchi Onesti. Il movimento rende visibile la forza del corpo, il suo sollevarsi con le proprie forze contro la forza di gravità: è qualcosa di simile, ante litteram, al “contrapposto” o alla “ponderazione” della statuaria severa e classica. Egli è disarmato, e tuttavia provoca una fortissima reazione emotiva negli astanti. Si tratta di una vera e propria “epifania”, propiziata da Atena: tutti, animali e uomini, lo vedono e sentono la sua voce «bronzea»:

A tutti balzò il cuore; ed ecco i cavalli dalle belle criniere

subito voltarono i carri; dolori previdero in cuore;

gli aurighi inebetirono, come videro il fuoco indomabile

tremendo, sopra la testa del Pelide magnanimo

ardente (…)

(Iliade, XVIII 223-227)

L’ultima immagine di Achille è armata, con l’asta paterna, grande, pesante, solida: 

nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva,

faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,

dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri

(Iliade, XVI 141-144).

E con la panoplia fabbricata da Efesto. Così armato, Achille ha il chiarore della luna:

Come quando splende in mare ai naviganti il chiarore

d’un fuoco acceso, ch’arde in alto sui monti

in una stalla solinga; e i turbini loro malgrado

li portano sul mare pescoso, lontano dagli amici;

così saliva all’etere il lampo dallo scudo d’Achille;

bellissimo, adorno.

(Iliade, XIX 373-380)

A queste immagini dobbiamo aggiungerne una quarta, un guerriero che sembra Achille, indossa le sue armi – gli «schinieri belli, muniti d’argentei copricaviglia», «la corazza a vivi colori, stellata», «la spada a borchie d’argento, bronzea, e lo scudo grande e pesante», «l’elmo robusto, con coda equina» - ma non è Achille. Non appena i Troiani lo vedono, scintillante nelle armi:

A tutti il cuore fu scosso, le file si scompigliarono,

credendo che presso le navi il Pelide piede rapido

avesse smesso l’ira, ripresa l’amicizia.

Ciascuno spiava dove potesse fuggire l’abisso di morte

(Iliade, XVI 280-283)

Quattro corpi diversi dunque, quelli di Achille, che si dispongono sul crinale di una secca alternativa: vestire le armi o non vestirle; combattere o apparire ai combattenti; balzare in piedi o stare seduto; isolarsi o partecipare. Ma, anche, che sperimentano di ogni scelta due possibili varianti. Combattere: per interposta persona o in proprio nome; non mischiarsi agli altri: muto o urlando con voce sonora.

Fra questi quattro corpi il più interessante è il primo. Seduto.

Exekias, Achille e Aiace giocano a dadi, anfora da Vulci, 540-30 a.C., Museo Gregoriano Etrusco

È molto interessante osservare che, per illustrare il momento iliadico in cui Achille non combatte, i ceramografi lo dipingono intento a giocare a dadi, seduto. Il tema, ignoto all'epos, è un'invenzione dei ceramografi, che si staccano dal testo omerico ma restano fedeli alle sue intenzioni comunicative e ci restituiscono l'immagine del guerriero che non combatte, "inutile". Una variazione del mitologema del "re pescatore", un re ferito e impotente, al quale non resta che stare seduto su una barca dilettandosi con la pesca?
Rivolto a Patroclo, inviatogli da Achille per avere notizie sull’andamento della guerra, Nestore commenta il ritiro di Achille dalla guerra e afferma con asprezza che «egli solo trarrà utilità dal suo valore; eppure io
credo/che avrà da piangere molto, quando sia massacrato l’esercito» e lo stesso Patroclo, nel riferire le parole di Nestore vi aggiunge un’amara interrogazione: «in cosa un altro avrà utilità da te, anche un tardo nipote,/ se non difendi gli Argivi dalla rovina obbrobriosa?» 
Morto Patroclo, Achille vede se stesso seduto presso le navi, come «inutile peso della terra», benché forte in guerra quanto nessun altro. 
Ancora più eloquente è un'altra celebre iconografia di Achille seduto: una kylix del Pittore di Briseide illustra il momento in cui Achille è privato della schiava.



La scena raffigura la giovane nel momento in cui viene prelevata dalla tenda, mentre Achille seduto è avvolto da un mantello da cui sporgono appena gli occhi e la fronte dell’eroe. Lo stesso atteggiamento, seduto e avvolto dal mantello, è tenuto da Achille nell’episodio, illustrato da molti ceramografi, dell’ambasceria che gli Achei capeggiati da Odisseo inviano per convincerlo a riprendere la guerra, nel nono libro dell’Iliade. Nel cratere del Pittore di Eucharides, Achille e Odisseo sono seduti l’uno di fronte all’altro, con Achille piegato e imbacuccato. Questa iconografia di Achille, ammantato, con la testa reclinata e appoggiata alla mano è abbastanza comune in opere collocabili fra il 500 e il 470 a.C. 

Da notare il mantello. In Omero non c'è traccia di ciò.
Il capo velato è comunemente associato alle donne: la fanciulla e la donna greca portano di regola il velo a coprire volto e capo, sebbene possano in talune situazioni toglierlo. Spesso la donna è mostrata nel gesto di velarsi o svelarsi, cosicché il velo femminile è legato al movimento, alla comunicazione: è luminoso, trasparente, per nulla opaco e, nella pittura vascolare è raramente statico. Anche gli uomini sono talvolta mostrati nel gesto di velarsi, per coprire il volto contratto dalla commozione e segnato dal pianto. In questi casi lo scopo è nascondere alla vista altrui la colpa e la vergogna.
Nascondere lo sguardo o nascondersi allo sguardo?
Se guardiamo alla serie di riferimenti a dolore, colpa, vergogna, commozione e alla serie di posture, seduti, con la testa appoggiata alla mano, avvolti nel mantello - elementi che nell'iconografia sono talvolta riuniti e talvolta no - è difficile trovare una corrispondenza biunivoca fra il gesto e il sentimento individuale; ma forse è possibile individuare una situazione comunicativa, che coinvolge la corporeità non dell’individuo singolo ma degli individui che comunicano, a cui quei gesti si riferiscono. 

Achille appare ammantato in due episodi che hanno in comune la pertinenza al nucleo narrativo principale dell’Iliade - l’ira dell’eroe e il suo rifiuto della battaglia - in due momenti salienti: quello in cui essa ha inizio, con la contesa fra l’eroe e Agamennone e quello in cui è ormai irreversibile e Achille resta sordo alle argomentazioni di Odisseo. Dal punto di vista dei sentimenti di Achille si tratta, come ha notato Settis, di “ira” e “corruccio”, ma il mantello che avvolge l’eroe esprime qualcosa anche dal punto di vista della comunicazione, della interazione fra Achille e Agamennone e fra Achille e Odisseo.

Osserviamo per esempio la raffigurazione vascolare del confronto fra Achille e Odisseo, nel cratere di Eucharides.



Achille è avvolto in un mantello, la stoffa si dispone in giri e pieghe intorno al corpo dell’eroe, dalla testa giù fin quasi ai piedi, paralleli e poggiati a terra. Odisseo è nudo, il mantello aperto sul torace, le gambe accavallate, il ginocchio stretto dalle due mani. Il gesto di tenere le gambe accavallate può essere variamente interpretato: secondo Franzoni dall’età classica in poi potremmo comporre un doppio catalogo: quello delle gambe accavallate attribuite a figure ‘negative’, quello in cui lo stesso gesto è problematico o addirittura può assumere valenze positive. Come già per il gesto del velarsi, anche il gesto dell’accavallare le gambe non pare legarsi ad un preciso sentimento personale.

Invece di guardare alle due pose separatamente, consideriamo allora l’intera scena: la posa di Odisseo, dinamica, è l’opposto di quella di Achille, impedito nel movimento. Il mantello aperto dell’uno si chiude sull’altro e sembra quasi intrappolarlo. Lo stesso stare seduti è diverso: la posa di Odisseo suggerisce rilassatezza ma anche possibilità di movimento, i piedi sono liberi da impacci e lontani l’uno dall’altro, occupano porzioni diverse dello spazio. Ad Achille invece il movimento ampio e libero di Odisseo pare precluso, non è fisicamente possibile. I due eroi, benché condividano il medesimo spazio, sono estranei l’uno all’altro, per nessuno dei due è possibile comprendere l’altro, partecipare dei suoi movimenti. Sono reciprocamente invisibili. 
Ma ciò che è davvero significativo è che ciascuno di essi, a suo modo, sta compiendo la stessa azione.

Pensare.

In un film di Carlo Verdone di qualche anno fa, c’è un dialogo fra il protagonista Ernesto, interpretato dallo stesso Verdone, e Fulvio un conduttore radiofonico, interpretato da Claudio Bisio. Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, che viene sconvolta dall’arrivo di Cecilia, una ragazza molto più giovane di lui, abbandonata dal padre da piccola, e con la quale egli inizia una intensa relazione. In una scena del film, per nascondersi alla vista dei vicini, i due, sulla terrazza di un palazzo popolare, con i fili del bucato e i panni appesi, si nascondono sotto un lenzuolo. Ed ecco perché, tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta a Fulvio in diretta radiofonica, la fine della storia:

Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so... Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel
giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’
infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi
recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco
il cervello / se non la smetto di ricordare’".

Nel film, vediamo Ernesto che si ricopre con il lenzuolo. 

Fotogrammi del film “Manuale d’amore 2 – Capitoli successivi”, di Giovanni Veronesi.


Fuori di lui, il mondo continua con le sue rassicuranti abitudini; dentro lo spazio del lenzuolo, Ernesto ricorda la ragazza che ha amato, recitando la poesia da lei composta. I due spazi, separati, esistono entrambi. Ma uno – quello del ricordo, che può esistere soltanto nel pensiero – può a sua volta esistere sol-
tanto sospendendo temporaneamente l’altro (“ogni tanto”). Ernesto, velandosi, sospende la sua esistenza di marito fedele ed entra in risonanza con una parte profonda del pensiero, in cui egli rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia.

Le immagini dunque non illustrano né descrivono il testo omerico. Lo traducono in una diversa grammatica: stare seduti, con le gambe incrociate o avvolti nel mantello sono modi diversi di interrompere l'azione, momentaneamente impossibile, e pensare (o dare conto della propria momentanea inutilità, giocando). Modi diversi non rispetto al grado di integrazione del pensatore nella realtà circostante, ma modi diversi di pensare l’uno rispetto all’altro, nel caso - rarissimo - di pensatori che condividono lo stesso spazio figurativo. 

Per concludere: il pensatore solitario e silente, avvolto nel mantello, è separato dalla scena che si svolge intorno a lui, come è separato da un altro pensatore che condivida il suo spazio; altrettanto vale per il pensatore in precario equilibrio, con le gambe incrociate. Entrambi in qualche modo inaccessibili, l’uno invisibile e nascosto dal mantello, l’altro doppiamente “annodato” dall’incrocio delle gambe e delle braccia: Achille e Odisseo sono inaccessibili l’uno all’altro.

Su Odisseo: Nicosia, S. (2003). L'identità di Ulisse. In S. Nicosia (A cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita. (p. 9-21). Padova: Marsilio.
Sul "re pescatore": Agamben, G. (2009). Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Torino: Bollati Boringhieri
Su kouroi e korai: Fehr, B. (1996). Kouroi e korai. Formule e tipi dell'arte arcaica come espressione di valori. In S. Settis (A cura di), I Greci. Storia cultura arte società. I Greci. 2. Una storia greca. I. Formazione.
Su Achille 'imbacuccato': Franzoni, C. (2006). Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell'arte greca. Torino: Einaudi.(p. 785-843). Torino: Einaudi.
Sull'inutilità di Achille:Gilli, G. (1988). Origini dell'uguaglianza. Ricerche sociologiche sull'antica Grecia. Torino: Einaudi.

giovedì 5 giugno 2025

Abiti di scena nell'Odissea: vestiti, stracci e cambi d'abito vari di Odisseo

Cratere del Pittore di Persefone
Cratere del Pittore di Persefone, al MET, con varietà di abiti maschili e femminili

L’Odissea è un poema disseminato di vesti: ogni figura femminile - Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope - ha ovviamente abiti e ornamenti convenienti, di altri personaggi è minuziosamente descritto l'abbigliamento, ma sorprendentemente è Odisseo a sfoggiare una gran quantità di 'outfit'. Chi viene dalla lettura dell'Iliade, in cui ci si veste e ci si spoglia quasi solo di armi - la scena della vestizione delle armi da parte dell'eroe è una delle cosiddette scene tipiche, di repertorio - può restarne sorpreso.

Perché  questa insistenza? 

Non si tratta di semplici dettagli descrittivi: ogni cambiamento nello stato di Odisseo è accompagnato da un cambio di abito. Questo schema, messo in evidenza in un articolo di qualche anno fa da Pietro Giammellaro (Coperto di misere vesti. Forme del vestire e codici di comportamento nel racconto omerico di Odisseo mendicante) è particolarmente evidente a partire dal libro V, e costruisce un filo nascosto che attraversa tutto il poema. Quando Odisseo lascia l'isola di Calipso, la dea lo riveste con vesti profumate, quasi cerimoniali: un addio che sembra un rito di sepoltura, un allontanamento dalla vita divina per rientrare, mortalmente, nella storia. Ma è Ino-Leucotea a suggerirgli di togliere quelle vesti, perché lo appesantiscono e rischiano di farlo annegare: il corpo, per salvarsi, deve spogliarsi dei doni. Riceve invece un velo, un oggetto minimo, che non copre ma protegge. 

È il primo oggetto non-identitario che consente a Odisseo di proseguire: Odisseo lo accetta dopo qualche riluttanza. 

Arrivato a Scheria, Odisseo è nudo. Non ha più nulla: né abiti, né nome, né titolo. Si presenta a Nausicaa come supplice, e la richiesta che fa è precisa: cibo, riparo, e vesti. Lì inizia un nuovo ciclo. Il dono degli abiti è il primo atto della sua reintegrazione nella parola e nella comunità. Ma sono abiti non propri, abiti da ospite.

Da quel momento, l'abito diventa sempre più centrale nella narrazione. Quando torna a Itaca, Odisseo viene trasformato da Atena: la dea gli indurisce la pelle, gli leva i capelli, gli toglie lo sguardo. Lo veste con cenci sudici, pelli spelacchiate, una bisaccia rotta. L'eroe deve svanire nella scena, per poterla osservare. Non è un inganno, ma una posizione. E proprio in quel travestimento affronta il mendicante-rivale Iro, assiste alla scena dei Proci, si fa riconoscere lentamente.

Compiuta la strage, Odisseo chiede che gli siano portati zolfo e fuoco, per pulire e purificare la vasta sala dove dove è avvenuta la carneficina dei Proci. La nutrice Euriclea gli risponde: 

"Sì, questo, creatura mia, tu l'hai detto a proposito.

Però anche tunica e manto porterò, buone vesti,

che così tu non stia, coperto l'ampie spalle di stracci,

qui nella sala: vergogna sarebbe".

Ma Odisseo prende tempo: "prima il fuoco".

Così quando Penelope scende dalle sue stanze, avvertita che Odisseo è tornato, non lo riconosce ("perché son sporco, e brutte vesti ho sul corpo" spiega Odisseo al figlio). E così finalmente Odisseo si lava e si riveste condecentemente. 

Tuttavia, non è questo l'ultimo abito di Odisseo! Infatti, riconosciuto dalla moglie, riappropriatisi entrambi dei "diritti del letto", Odisseo veste le "armi belle" perché è da eroe e da guerriero che deve concludersi il suo viaggio con una battaglia iliadica fra la "casa" di Odisseo e i parenti degli uccisi. Odisseo, che aveva preferito l'astuzia e lo stratagemma al combattimento corpo a corpo, l'arco e le frecce alla corta spada e all'asta, deve stavolta combattere da eroe e da re. Finché Zeus non lo ferma.

Ricapitoliamo: tutti gli abiti fino a un certo punto sono doni: di Calipso, di Ino, dei Feaci, di Atena, di Penelope (che aveva fornito quelli della partenza). Non esiste un momento in cui Odisseo scelga da solo cosa indossare: è curioso... Il suo corpo è sempre allestito da altri. 

L’unico gesto di rifiuto è il gettare le vesti divine. 

E anche questo, per essere compiuto, ha bisogno di un suggerimento esterno. L’abito è sempre linguaggio: altrui o proprio.

Le vesti offerte da Calipso, profumate e solenni, segnano un rito di passaggio dalla condizione divina alla condizione umana. Subito dopo, quelle stesse vesti diventano un ostacolo: nella tempesta mandata da Poseidone, sono proprio gli abiti a rischiare di ucciderlo, trasformandosi in zavorra. Il gesto di spogliarsi, suggerito da Ino, è il primo atto di autonomia: è necessario disfarsi di un’identità in prestito. Il velo ricevuto in cambio non definisce, non qualifica, ma sostiene: è un oggetto neutro, uno strumento di transizione.

La nudità, al momento dell’arrivo presso i Feaci, rappresenta la condizione zero: il naufragio dell'identità. Questo è confermato da molte altre scene di Odisseo fra i Feaci, che lo irridono: non sembra affatto un atleta, un mercante piuttosto, uno attento al guadagno, ignaro dello stile di vita aristocratico, del canto, della gara atletica, della guerra! 

Il travestimento, poi: un abito, sporco e degradato, per permettergli di agire in incognito nella sua stessa casa. Per mettere in scena il contrasto fra il falso re (i Pretendenti, scialacquatori e impudenti) e il vero re (Odisseo, il re di miseria, "coperto di misere vesti", ma anche Laerte, suo padre che si è lasciato andare per l'assenza del figlio e indossa una misera tunica). Un tema antico che percorre tutta l'ultima sezione del poema e che non sarebbe possibile esplorare senza il linguaggio dell'abito. 

Questa progressione dunque - dall’identità imposta all’identità scelta, attraverso il rifiuto, la nudità e il travestimento - è una delle strutture profonde del poema. 

E si gioca tutta sul corpo vestito, spogliato, travestito, rivestito.

Fino alla riappropriazione (ma forse meglio: costruzione) dell'identità: re e guerriero. In armi. 

(ma com'era vestito alla partenza? Penelope lo chiede al finto indovino - in realtà Odisseo stesso - come prova del fatto che egli abbia davvero conosciuto il marito. Ed ecco cosa risponde il finto indovino: 

"Un mantello purpureo, di lana, il chiaro Odisseo aveva,

doppio; e in esso gli era forgiato un fermaglio d’oro,

con doppia scanalatura, e v’era un cesello davanti:

nelle zampe anteriori, un cane teneva un cerbiatto screziato

e lo guardava dibattersi. E tutti ammiravano

come, pur essendo essi d’oro, l’uno cercasse di strozzare il cervo

e questo, bramando scappare, scalciasse coi piedi.

E notai la sua tunica, che sulla persona splendeva

come un velo di cipolla secca:

era delicata così, e come il sole era lucente")


Lessico essenziale dell'abbigliamento greco (omerico):

  • χιτών (chitōn): tunica, abito di base. Indossato da uomini e donne, era costituito da un telo quadrangolare, tagliato e cucito sul lato lungo e sulle spalle, con le maniche applicate o ricavate dall'ampiezza del telo; oppure pieghettato in modo da adattarsi al corpo. Si poteva indossare con o senza cintura. Era lungo fino ai piedi oppure più corto, specialmente per gli uomini

  • ἰμάτιον (imátion): mantello, spesso simbolo di status. Era un telo quadrangolare avvolto intorno al corpo in modo che un lembo ricadesse sulla schiena

  • πέπλος (peplos): drappo femminile. Era indossato solo dalle donne. Consisteva in un telo quadrangolare cucito lungo il lato lungo e ripiegato in modo da formare una balza, fermato sulle spalle con fibbie e spilloni

  • ζωνή (zōnē): cintura

  • σάνδαλον (sandalon): sandali. Erano il tipo di calzatura più comune, formata da una suola di cuoio fermata al piede con lacci o cinturini di varia foggia.

  • ἐσθής (esthes): veste, di tessuto prezioso, data in dono, delicata e lucente.

  • εἵματα (eimata): abiti, di qualsiasi foggia.

  • λώπη (lope): ampio mantello di pelle in forma di cappa (solo in Omero).

  • ϕαρος (pharos): sciarpa, stola di stoffa fine.

  • λαῖφος (laiphos): straccio, indumento dei mendicanti

  • ῥάκος (rakos): straccio, cencio, scampolo di stoffa

  • ῥόπαλον (ropalon): bastone del mendicante.

  • πήρη (pere): bisaccia.

Fonte: A. Perkidou-Gorecki, Come vestivano i Greci, Milano 1993.
Per approfondire: Department of Greek and Roman Art. “Ancient Greek Dress.” In Heilbrunn Timeline of Art History. New York: The Metropolitan Museum of Art, 2000–. http://www.metmuseum.org/toah/hd/grdr/hd_grdr.htm (October 2003)

domenica 18 maggio 2025

Intelligenza artificiale, deficit, società


I Greci, è noto, non hanno contribuito se non in minima parte allo sviluppo tecnologico. La Rivoluzione industriale non è partita da Atene, né da Alessandria. Tuttavia, il modo in cui noi tuttora guardiamo alla tecnica, il fatto stesso che usiamo una parola al singolare, è una costruzione culturale greca. 

Essa si riassume in un paradigma tanto semplice nella sua formulazione, quanto complesso e faticoso nel processo che lo ha prodotto:

DAI BISOGNI ALLE TECHNAI

Il paradigma mette in successione temporale e causale bisogni umani - fame, freddo, malattia, spostamento, comunicazione, tempo libero - e ritrovati che colmano e soddisfano quei bisogni: produzione di cibo, abiti, ripari, medicine, navi, scrittura, giochi. Siccome gli uomini sperimentano la malattia, allora i medici conoscono e applicano le cure per guarirli.

Le tecniche – agricoltura, architettura, navigazione, medicina etc. ci appaiono così – tuttora! - come naturalmente subordinate ai nostri scopi, our goals. 
Un esempio: nel dibattito pubblico recente è stata fortemente criticata la corsa delle scuole all’acquisto di tecnologie che non rispondevano ai loro bisogni, di cui non si sentiva l’esigenza, ed è stato indicato, anche nei vari documenti ufficiali del ministero - come percorso da seguire nella progettazione - quello di censire prima i bisogni e poi acquistare le tecnologie indispensabili in ordine ai bisogni individuati.

Una delle formulazioni più antiche del paradigma è nel Prometeo incatenato di Eschilo. La tragedia è un lungo scontro indiretto fra Prometeo e Zeus. Prometeo - espressione di un ordine arcaico soppiantato da Zeus e dal sistema olimpico - è colpevole di aver dato il fuoco agli uomini, contro il volere di Zeus. Ma Prometeo – come egli stesso rivendica - ha fatto anche altri doni all’umanità: il pensiero e la coscienza, la scrittura, la memoria, la medicina, la mantica. Nonostante vari tentativi fatti da intermediari, egli non cede a Zeus (al quale nasconde dei segreti) e per questo viene scagliato, insieme alla rupe a cui è incatenato, nel Tartaro, un burrone senza fondo. 

Eschilo, è bene dire, parteggia per Zeus ma mostra simpatia per Prometeo. Il loro scontro è tragico proprio nel senso che lo sconfitto non ha tutta la colpa e il vincitore non ha tutta la ragione. Ma l’ottica di Eschilo è conciliativa: le tecniche - di cui Prometeo è fiero portavoce - hanno diritto di cittadinanza nel nuovo ordine, olimpico.
Nei discorsi che egli fa con vari personaggi che si alternano al suo cospetto, Prometeo infatti si serve del paradigma di cui abbiamo detto per giustificare la sua azione oblativa (ma anche furtiva, immetodica e menzognera: ha infatti rubato il fuoco e ha distribuito malamente le technai): prima del suo intervento gli uomini erano bisognosi, poi hanno trovato sollievo alle loro carenze. 
Ogni techne, nel suo discorso, ha un corrispettivo bisogno che viene a colmare: 




Technai diverse fra loro trovano nell’essere subordinate ai bisogni una loro unità: il sistema delle technai si definisce così attraverso la positività che creano soddisfacendo bisogni. E questi bisogni sono bisogni di tutti, non desideri individuali, non condivisibili o dannosi per la collettività. Le technai sono dunque:
utili: prima di esse vi era una condizione negativa resa positiva dalle varie technai
razionali: esse portano ordine in un mondo confuso
Quello che vediamo all’opera in Eschilo, ma anche in Euripide, e poi con ampiezza in Platone è un tentativo inesausto di dettare le regole, di stabilire le condizioni per il dispiegamento delle technai, di costruire un meccanismo di controllo sociale delle technai. La numerosità di questi interventi regolatori, l’intensità della riflessione greca su questo tema ci dicono la grande preoccupazione che i greci avvertivano nei confronti del mondo delle technai, la minaccia che esse rappresentavano per la Società. 
Per quanto strano, inconsueto e inspiegabile ciò possa apparire, le technai – per diversi motivi – erano avvertite come pericolose e minacciose, a tal punto che nei Racconti delle Origini – cioè nei miti che inscenano la costituzione dell’uomo in società civile, come appunto il mito di Prometeo, la questione delle technai è centrale.
Se ampliamo lo sguardo, vediamo dunque, al di sotto del paradigma tradizionale un altro paradigma, nascosto, originario, che può essere rappresentato così:

LE TECHNAI contro LA SOCIETÀ

In esso le technai sono:
  • ingannevoli e opache: la loro emergenza è accolta con disfavore e scetticismo, la loro fonte è inaccessibile e misteriosa; 
  • praticate in modo smisurato dai loro portatori, che per esse sono distolti da altri più importanti obblighi sociali (per esempio, la guerra)
  • indifferenti alla salvezza o al guadagno: i technitai, i portatori di techne, possono talora praticare gratuitamente o addirittura in perdita la loro techne
  • non scelte dai loro portatori (sono ‘doni’ divini) e anzi talora subite dolorosamente e indivisibili da essi (non esiste in origine ‘la medicina’, ma i ‘medici,’ anche loro malgrado) 
  • naturali, innate, originarie rispetto alla Società (nei Racconti delle Origini, cioè nei miti che mettono in scena la nascita del consorzio civile, esse preesistono alla fondazione della Società, = sono frutto di ‘distribuzioni’ precedenti a quella di Zeus, definitiva. Nel mito di Prometeo raccontato da Platone, nel Protagora, Zeus deve intervenire dopo che Prometeo ha distribuito in modo diseguale le technai, per fare una nuova distribuzione egualitaria che consentisse la nascita della società civile)
  • causa di disuguaglianza: i campi di specializzazione tecnica sono innumerevoli, distanti fra loro e non integrati. 
  • indifferenti all’integrazione: ogni techne è autonoma dalle altre, ogni technita è isolato dagli altri e disinteressato all’apprendimento e all’insegnamento
  • non tutte utili né razionali (per esempio: la techne del furto o della menzogna, in cui eccelle Odisseo e la sua famiglia)
Per ognuno di questi punti elencati esiste un ricco dossier di testi ed esempi. Ho aggiunto una colonna alla tabella che mostrava il paradigma tradizionale, con (almeno) tre esempi di technai ‘originarie’ colte nel loro momento pre-societario e nella loro vocazione antagonista rispetto alla società, o meglio percepita come tale dalla Società. 




Anche questo paradigma nascosto ci è in qualche modo familiare. Esso non ha cittadinanza nel dibattito pubblico, ma non è sconosciuto all’esperienza privata. È quindi nel romanzo e nella letteratura che ne troviamo esempi. Gli esempi abbondano nella letteratura greca arcaica, da Esiodo a Teognide a Pindaro, ma ho scelto un esempio recente (corsivo mio).  

Ecco, per esempio, come Leonardo Sciascia parla di Ettore Majorana ne La scomparsa di Ettore Majorana: 

«Tra il gruppo dei “ragazzi di via Panisperna” e lui, c’era una differenza profonda: che Fermi e “i ragazzi” cercavano, mentre lui semplicemente trovava. Per quelli la scienza era un fatto di volontà, per lui di natura. Quelli l’amavano, volevano raggiungerla e possederla; Majorana, forse senza amarla, “la portava”. Un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare – per Fermi e il suo gruppo. E per Majorana era un segreto dentro di sé, al centro del suo essere».

La letteratura greca è piena di riflessioni sul conflitto fra l’esperienza personale e privata della techne, esperienza totale, estetica, irrazionale, che procede per tentativi, per errori, che deborda fuori da ogni argine artificiale, e la sua ricezione nella società. 
La società costruisce argini, luoghi, detta tempi e scopi, detta regole, amputa, taglia, giudica.
La ricezione delle technai nella Società assume – come abbiamo intravisto - l’aspetto di un Giudizio di utilità. Viene richiesto ai portatori di techne un pacchetto di requisiti che, sulla base dalla separazione fra portatori di techne e techne stessa: la ‘medicina’, disciplinata e staccata da ‘i medici’, comprende: 
l’insegnabilità della techne
la sua subordinazione a bisogni societari, 
la sua organizzazione interna improntata a razionalità e congruenza fra mezzi e fini, 
l’integrazione della singola techne in un sistema. 

Il ‘processo’ alle technai assume – nelle fonti che ne lasciano trasparire l’esistenza - toni e lessico giudiziari. Al termine del processo, il pensiero greco ha costituito il corpus delle technai che tuttora conosciamo, con le regole che tuttora osserviamo – i medici ancora giurano di procedere per l’utilità del malato (una precisazione di cui non ci chiediamo più la ragione, a tal punto abbiamo dimenticato la possibilità di una medicina contro il malato, per sé stessa, per il suo progresso) come i medici ippocratici del V sec. a.C. – con le esclusioni e i dubbi che ancora condividiamo. Dubbi di ‘utilità’: è utile la techne retorica? Già se ne dubitava pochi decenni dopo la sua nascita e tuttora se ne dubita. 
***

Se questo è il quadro generale che ereditiamo dalla sistemazione greca, sopravvissuta nel Medioevo, recuperata nell’Umanesimo e infine assunta nella Rivoluzione Scientifica, ci tocca ora collocare l’intelligenza artificiale in esso.
Cominciamo col dire che, anche qui, pare che i Greci abbiano dettato (alcune) regole. Pur senza avere realmente la tecnologia dell’intelligenza artificiale, ma avendola immaginata. Omero, infatti, sembra aver immaginato molte moderne tecnologie, a partire da quel prototipo di schermo cinematografico che è lo scudo di Achille per arrivare all’Intelligenza Artificiale. 

Entriamo nel laboratorio dell’artefice per eccellenza: Efesto. 
Efesto è un dio, un metallurgo e un disabile, anche. La sua storia è molto particolare: intanto notiamo come fosse possesso di Efesto proprio quella tecnologia del fuoco che Prometeo aveva sottratto al dio per donarla agli uomini. Poi torneremo su altri particolari della sua biografia.
Nel XVIII libro dell’Iliade, a lui si rivolge Teti, perché forgi nuove armi per Achille. Achille ha perso le sue armi per averle prestate a Patroclo; vinto in battaglia da Ettore, costui è stato spogliato dell’armatura (non sua). Ora dunque Achille è ‘nudo’.
Quindi Teti, la madre di Achille, si reca nell’officina di Efesto, che Omero descrive con grande cura. 
Nell’officina di Efesto tutto ha l’aspetto – fantascientifico - dell’oggetto inanimato che prende anima e movimento. L’origine di questo automatismo risiede sia nel carattere divino dell’artefice, sia nel materiale stesso: il metallo. Tutto – dalla casa stessa, agli arnesi – è metallico: oro, argento, bronzo. Nella mitologia greca, ma anche in altre mitologie, la metallurgia è spesso accostata alla “meraviglia”, al prodigio, alla costruzione di oggetti con poteri straordinari. Ed Efesto è un artefice mitico, un metallurgo. 

Dice Musti: “Il greco mostra dunque di pensare e sognare l’automatismo degli oggetti inanimati, anche se non ne ha ancor ai messi e le capacità tecnologiche: non ha ancora il know how; ha però, potremmo dire, il know what!”

Rispetto agli oggetti metallici prodigiosi, in questo caso, abbiamo però a che fare con alcune peculiarità: gli oggetti presenti nel laboratorio di Efesto sono interamente automatizzati: al suo invito, i mantici si mettono a lavorare, soffiano e sbuffano – autoregolando l’intensità del refolo - per alimentare il fuoco. Da soli si muoveranno i tripodi, che egli sta costruendo, e andranno a illuminare l’assemblea divina per poi ritornare, da soli, a casa, con le proprie ruote d’oro. 
Ma più stupefacenti, di questa domotica divina, sono le ancelle di Efesto, che lo sorreggono (lui, zoppo) e che hanno “intelligenza” noos e “voce”, audè e “forza”, sthenos. “Simili a ragazze vive”, dice Omero. 
Sono oggetti che non si muovono per magia, ad un comando dell’artefice; non eseguono comandi. Non fanno cose che non potrebbero fare: non sono, per intenderci, i libri che volano nella valigia di mago Merlino. Si muovono grazie a dispositivi integrati pensati ad hoc: le ruote, per esempio.
Le ancelle sono simili a ragazze vive non nel senso di una semplice verosimiglianza figurativa; esse “sanno il lavoro”, sono programmate per svolgerlo. Omero non attribuisce la loro operatività ad una transustanziazione miracolosa o magica. Non sono state trasformate in persone e neanche lo saranno: non sono delle antenate di Pinocchio. 
Sono e restano di metallo, eppure parlanti e operanti. 
Sono Robots. Autòmatoi, in greco: oggetti che si muovono da soli perché sanno ciò che devono fare. L’officina di Efesto non ci parla delle macchine della Rivoluzione Industriale dell’800 con il loro seguito novecentesco, in cui l’uomo perde una parte del suo lavoro, cessa di essere il primo strumento di produzione; ci parla invece di Rivoluzione Digitale, di lavoro umano interamente sostituito dal lavoro delle macchine; qualsiasi tipo di lavoro umano. L’officina di Efesto è una one man company. Senza lavoro umano. Non vi sono macchine che relegano in posizione passiva l’essere umano, ma macchine prive di intervento umano. I mantici di Efesto non hanno bisogno di alcun intervento ulteriore. Le ancelle metalliche non necessitano di ordini specifici. 

Aristotele rimase colpito da questo passo dell’Iliade e argomentò che se fossero realmente esistiti gli automi, non vi sarebbe stato bisogno di lavoro schiavile o comunque dipendente. 
Fin dall’inizio, è dunque evidente il nesso fra intelligenza artificiale e sostituzione del lavoro umano. 
Ma è anche presente il ‘giudizio di utilità’ che pende sugli artefatti intelligenti. Essi sono indubbiamente utili: 
essi sono pensati per colmare il deficit dell’artigiano, sono strumenti compensativi. 
il complesso degli strumenti di AI è finalizzato a migliorare l’organizzazione del lavoro, a renderla più veloce ed efficiente.

Ne deriva un paradigma manifesto che possiamo così sintetizzare:

DAL DEFICIT NATURALE  ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Che riformula il paradigma nascosto 

INTELLIGENZA ARTIFICIALE contro SOCIETÀ

Infatti, l’episodio di Efesto ci mostra indubbiamente, dal lato della Società, l’utilità delle technai: esse colmano un bisogno innegabile ed evidente. 
Ma, dal lato del loro portatore – Efesto – non ci dice forse qualcosa di più? 
In tutto l’episodio, Efesto ha alternato toni di estrema dolcezza nei confronti di Teti e toni di estrema rabbia Questa rabbia è rivolta principalmente contro la madre, Era, colpevole di averlo scaraventato giù dall’Olimpo a causa della sua deformità. proprio questa precipitazione è all’origine della sua solitudine e della sua abilità metallurgica: caduto in mare fu accolto da divinità marine dove rimase nove anni forgiando monili.
Ma, nei confronti della madre, Efesto usa altre volte toni e parole improntati a dolcezza. Nel libro primo dell’Iliade viene descritta una (delle molte) dispute fra Era e Zeus, ma 

Efesto, famoso per la sua techne, prese a parlare
Dolcezza portando alla madre sua, Era bianco braccio
E le consiglia di mitigare il suo atteggiamento verso Zeus:
(...) ma tu con dolci parole rivolgiti a lui:
e subito allora sereno e buono sarà l’Olimpio con noi 

La reazione di Era all’indole del figlio è contraddittoria: se sul momento sorride, rasserenata; pochi istanti dopo, quando Efesto proseguirà la sua opera mescendo il vino per gli dèi, e quindi muovendosi, ella, come tutti gli altri dèi, riderà di gusto allo spettacolo della zoppia del figlio. Una analoga configurazione troviamo in un episodio dell’Odissea, narrato dall’aedo Demodoco nella reggia di Alcinoo: 
La moglie di Efesto, Afrodite, ha una relazione segreta con Ares, il dio della guerra. Informato della tresca, Efesto decide di cogliere sul fatto gli amanti e fabbrica delle catene al tempo stesso resistenti e invisibili con le quali intrappola i due amanti, non appena questi si coricano sul letto in cui egli ha predisposto la trappola. Gli dèi convocati come testimoni dell’accaduto, non manifestano alcuna empatia per Efesto tradito, ma ne irridono la techne, evidenziandone – nei loro commenti – l’aspetto di inganno, di prodigio. Ad essere tematizzato, nell’episodio, non è affatto il tema del tradimento e dell’inganno che i traditori agiscono; ma quello della techne e dell’inganno che i traditori subiscono, ad opera di un artefice per di più minorato. 

Non può dunque essere un caso se, nel laboratorio di Efesto, laddove egli esercita la sua techne, vi sono macchine. E nemmeno può essere casuale – a mio avviso – che queste macchine intelligenti culminino in una serie di macchine ‘femmine’ (le ancelle d’oro, l’oro ci dice che esse sono l’invenzione migliore dell’intero set di macchine intelligenti), macchine che sostituiscono quella cura amorevole, femminile, materna e coniugale che Era e Afrodite non hanno svolto. Le ancelle d’oro non solo hanno voce e intelligenza e forza, ma soprattutto non tradiscono e non irridono, non gettano via e non abbandonano. I tripodi che vanno e vengono dalla casa degli dèi con ruote d’oro, a differenza dello zoppo Efesto quando fa il giro come coppiere, non corrono il rischio di essere derisi e insultati. I mantici che soffiano e sbuffano non conosceranno il degradante bisogno di lavarsi e asciugarsi il sudore. 

Possiamo ulteriormente precisare in che senso l’intelligenza artificiale che Efesto è in grado di dispiegare è avversa alla società: essa è costituzionalmente – per le caratteristiche del suo portatore, non attrezzato né fisicamente né psicologicamente alla lotta – inabile alla fabbricazione di armi offensive. Efesto fabbrica scudi, corazze, schinieri. Sempre e comunque armi protettive, compie interventi difensivi e ispirati alla prudenza. Progetta scudi e strumenti invisibili. Ogni suo discorso e azione sono improntati alla delicatezza, alla gentilezza. La sua techne è incompatibile con la guerra. 

E come può ciò essere un pericolo per la società?
Lo è. 

Sempre nell’Iliade, Zeus ingiunge ad un certo punto agli dèi di unirsi a uno dei due eserciti – acheo e troiano – secondo le proprie preferenze. L’ordine di Zeus, impartito con tutti i crismi (convocazione di concilio, ordine perentorio impartito con imperativo) fatica a essere adempiuto: gli dèi vorrebbero stare in disparte a osservare, piuttosto che prendere parte. Ma Zeus insiste. Bisogna prendere parte. Non importa per quale esercito si sceglie di parteggiare, purché si partecipi. Si tratta di uno schema societario ineludibile: appartarsi è un disvalore, prendere parte è un valore. Il conflitto è un valore societario: costringe a uscire dall’isolamento e a confrontarsi, la guerra è un rapporto che interrompe l’isolamento al quale i technitai come Efesto sono vocati. La techne di Efesto dovrebbe, se volesse entrare nell’ordine olimpico cioè politico, essere in grado di produrre armi offensive. 

Questo doppio paradigma 

DAL DEFICIT NATURALE  ALL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE

che riformula il paradigma nascosto

INTELLIGENZA ARTIFICIALE contro SOCIETÀ

è pienamente operante nella storia recente dell’intelligenza artificiale, a partire da Alan Turing. 
Francesco Varanini, nel suo libro Le 5 leggi bronzee dell’era digitale, identifica due diverse genealogie, due linee di pensiero (e di azione) sull’intelligenza artificiale. Entrambe iniziano in qualche modo – preannunciate da Pascal – con Alan Turing. Varanini compie un lavoro di scavo nella personalità di Turing. Un lavoro umanistico. Cerca la motivazione che spinge Turing a progettare la sua macchina. Egli era mosso –-sostiene - dal bisogno di sostituire l’essere umano con la macchina: per Turing il computer deve/può sostituire (e quindi imita: the imitation game) il lavoro di una figura precisa: il contabile. Il computer riproduce gli states of mind del contabile. Li normalizza, li tiene sotto controllo. 
Turing - dice Varanini (p. 81) - vuole che la macchina sconfigga l’umano. 
Perché? Perché è mosso da un bisogno personale. Egli vuole scoprire, conoscere sé stesso attraverso la macchina. Per vari motivi, Alan Turing fu sempre una presenza imbarazzante nella sua stessa famiglia, cresciuto da genitori putativi, era un bambino silenzioso, soffriva la scuola, era distratto, sbadato, disadattato. In collegio è solo, il compagno di cui si innamora muore e la sua vita affettiva sarà sempre povera, senza piaceri. L’uomo con cui intreccerà una relazione lo deruberà dell’orologio d’oro del padre. Proprio questo furto mette in moto un’indagine la quale si concentra sull’omosessualità di Alan più che sul recupero della refurtiva. Il resto è noto. Sono i suoi ‘difetti’, la sua bruttura, il suo essere sbagliato che lo spinge a immaginare qualcuno che viva al suo posto; qualcuno perfetto, che viva senza soffrire. 

Ricapitoliamo le analogie ‘biografiche’ fra Efesto e Turing:
- esperienza del rifiuto, della svalutazione e della derisione
- virilità percepita come debole o deficitaria
- rapporto problematico con la sfera sessuale (tradimento)
- diversità (come sentimento personale e come addebito sociale)

Siamo dunque in presenza di vicende di degradazione e decadimento in cui aspetto fisico, ruolo marginale e loro origine rendono evidente una traiettoria negativa che rende plausibile l’esito: con Efesto e con Turing la macchina è preferita all’umano. Essa sostituisce l’interlocutore umano e colma il deficit dell’artefice. A conferma di quanto profonda sia l’incidenza di questi aspetti biografici nello sviluppo dell’Intelligenza artificiale, può essere citata l’autobiografia pubblicata nel 2000 da Eliezer Shlomo Yudkowsky. Strano, diverso, con un rapporto conflittuale con i genitori, dice lucidamente di sé: “Ho un deficit di hardware che crea una mancanza di energia mentale. Niente ha la meglio sull’hardware. Punto”. 

Ecco, dunque, la necessità di immaginare una macchina. 
L’esperienza tecnica, dunque, sembra aver trovato il modo di superare il giudizio di utilità senza perdere nulla del suo carattere per così dire ‘ricurvo’, di esperienza che ritorna sul soggetto e lo ricostruisce. E tuttavia, le preoccupazioni attuali che desta l’Intelligenza Artificiale ci dicono che il giudizio di utilità non è univoco: il deficit umano avvertito con tanta personale sofferenza dal tecnita – sofferenza del conflitto, incomprensione, fatica del lavorare: l’officina di Efesto è fatta per riprodurre e normalizzare gli stati mentali dell’artefice che non possono esprimersi attraverso movimenti perfetti - non è sentito come tale da ciascun membro della Società. Esso, con la connessa necessità di lavorare e con la risposta identitaria che il lavoro fornisce, è anche fonte di uguaglianza e di controllo sociale
Ma ci dice anche qualcos’altro: nel modello greco, sia quello nascosto che quello manifesto, le technai sono donate all’uomo dagli dèi, sono doni, ‘innate’ e addirittura biologicamente determinate. Platone riconosce una predisposizione naturale per l’esercizio di una techne, e secondo un’opinione abbastanza diffusa la techne è qualcosa di più, una attività quasi senza soggetto o, potremmo dire, costitutiva del soggetto o ancora che il soggetto subisce. Nelle technai, avviene come se non fosse l’uomo a scegliere una tecnica ed un percorso professionale, ma il contrario, e il soggetto non fosse che un mezzo. Il controllo aumenta nella versione manifesta del modello, che disciplina i doni e li rende fruibili e acquisibili. 
La techne di Efesto e quella di Turing invece non aumentano la gamma dei doni, non arricchiscono le discipline, non operano dalla parte dei goals (our goals) ma aumentano i soggetti, popolano il quadro delle distribuzioni originarie, che tradizionalmente vedeva uomini e animali nel ruolo di chi riceve e gli dèi nel ruolo di chi distribuisce, di altri soggetti. 
Anzi, di super-soggetti. Che non imitano la Natura (come le technai) ma l’uomo - the “imitation game” - ma senza replicarne i difetti. 
Più nuovi dèi che nuovi uomini. 

(

relazione tenuta al Convegno "Game of tech: intelligente o sociale? Educazione e Intelligenza Artificiale" Napoli, Dicembre 2023)



sabato 3 maggio 2025


Appunti sull’utopia

L’utopia è un’isola che non c’è, ma non possiamo smettere di cercarla. O almeno, così si è creduto per secoli. Oggi, invece, sono in molti a ritenere che l’utopia non sia più nemmeno pensabile. La parola nasce con il celebre libro di Thomas More del 1516, ma il concetto risale ad almeno duemila anni. Molto prima che l’umanista inglese desse nome e forma alla sua perfetta e irraggiungibile società isolana, i Greci avevano già tracciato i contorni di questo luogo impossibile. E lo avevano fatto, nel dominio della letteratura e della filosofia, con due approcci diversissimi tra loro: la serissima polis ideale del filosofo Platone e le provocatorie e paradossali comunità femminili del commediografo Aristofane.

Platone, nella Repubblica, immagina una città governata dai filosofi, in cui la giustizia coincide con un rigido sistema gerarchico dove ciascuno svolge soltanto la funzione per cui è più adatto. Questo modello, considerato ideale, presuppone l’abolizione della proprietà privata e addirittura della famiglia monogamica per le classi dirigenti, al fine di eliminare ogni conflitto e interesse personale. Tuttavia, Platone è il primo a riconoscere implicitamente che la sua città perfetta esiste soltanto "nelle parole": essa è concepita come modello filosofico e non come progetto politico reale. Aristotele stesso, allievo critico di Platone, ha obiettato nella sua Politica (II 3, 1261b32–35) che l'abolizione della proprietà privata annullerebbe incentivi essenziali alla cura e al progresso, affermando che "ciò che è di tutti, nessuno lo cura con attenzione".

Dall’altra parte dello spettro utopico troviamo Aristofane, che con Lisistrata e Le donne al parlamento propone soluzioni radicalmente opposte. Qui l’utopia è un espediente comico, una lente deformante attraverso cui osservare la società ateniese. Aristofane immagina donne capaci di interrompere guerre insensate tramite scioperi sessuali e di instaurare una completa uguaglianza sociale abolendo proprietà privata e matrimoni tradizionali. Tuttavia, dietro al sorriso grottesco e al paradosso evidente, emergono dubbi profondi sulla reale praticabilità di qualsiasi radicale ribaltamento sociale: nella commedia Le donne al parlamento, infatti, l’utopia egualitaria diventa presto un caotico fallimento, mostrando i limiti intrinseci di qualsiasi cambiamento troppo drastico e immediato. Aristofane usa l'ironia per mostrare che la società perfetta, se realizzata letteralmente, diventerebbe ben presto una farsa.

Quando nel Cinquecento Thomas More riprende queste idee antiche e le trasforma nella celebre isola di Utopia, lo fa consapevolmente. Conosce bene le critiche di Aristotele e l’ironia di Aristofane; sa che sta disegnando una società impossibile. Eppure insiste nel proporla, non per la sua realizzazione pratica, ma per suscitare una riflessione morale, politica e sociale sui difetti e le ingiustizie dell’Europa del suo tempo. Lo stesso More, del resto, sembra non voler fissare definitivamente il significato del termine: la U iniziale può essere letta come negazione (ou-topos, non-luogo) oppure come prefisso positivo (eu-topos, luogo buono). L’ambiguità è strutturale.

L’utopia riflette e nello stesso tempo annuncia una dimensione della storia dove c’è spazio per l’irrealizzabile, l’inattuabile (Mumford). Critica e progetto, in misura di volta in volta differenti, sono i due elementi indispensabili all’utopia, ma il loro rapporto è sempre ambiguo. L’idea di progetto, in particolare, si collega all’idea di futuro: come ha osservato Baczko, le utopie prefigurano un futuro, un avvenire immaginato sulla base dell’esperienza sociale realmente vissuta e criticata. L’invenzione utopistica, nel Settecento, si sviluppa in un orizzonte di attese, in cui la storia viene letta in chiave trasformativa. Ma già nell’antichità il passato forniva un modello: Sparta e Atene diventano modelli assoluti, utopie retroproiettate. È il caso di ciò che Jan Assmann chiama contrappresentismo: l’utopia non guarda sempre avanti, talvolta si rifugia in un passato idealizzato.

Il futuro auspicato dall’utopia, a differenza dei paradisi terrestri o dei paesi della cuccagna, non è relegato in una regione misteriosa e perfetta: anche se non è effettivamente attuabile, esso è costruito intorno a specifiche critiche all’esistente e si fonda su proposte alternative di organizzazione. Tuttavia, ci sono tratti comuni: l’utopia non può realizzarsi se non eliminando la conflittualità generata dal possesso delle ricchezze e dagli impulsi sessuali. Su questo punto, alcuni studi hanno messo in evidenza la distanza tra le utopie antiche, spesso ascetiche, e quelle moderne, che invece presuppongono un’abbondanza resa possibile da un uso equo della tecnologia.

Anche l’eguaglianza assoluta, tema chiave delle utopie moderne, non è pensabile prima dell’età contemporanea: a impedirlo, secondo Iacono, sono almeno tre fattori strutturali. Primo, la scarsità delle risorse disponibili. Secondo, l’assenza di un’idea storica di progresso. Terzo, la piccolezza delle comunità antiche, che consentiva sì una certa coesione, ma impediva di immaginare un’eguaglianza universale e duratura.

Il valore reale di ogni utopia potrebbe non risiedere tanto nel progetto in sé, quanto nella provocazione che esso rappresenta. La storia dell’utopia, dai filosofi e commediografi greci fino agli umanisti rinascimentali e oltre, sembra suggerire proprio questo: che la ricerca di una società perfetta non sia altro che un modo per mettere alla prova le nostre società reali, costringendoci continuamente a guardarle con occhi più lucidi e critici.

Resta dunque aperta la questione se l’utopia sia destinata a restare per sempre irraggiungibile, e se non sia forse proprio questa impossibilità a renderla così necessaria.

Bibliografia essenziale

  • Assmann, Jan. La memoria culturale: scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche. Torino: Einaudi, 1997.

  • Baczko, Bronisław. L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo. Torino: Einaudi, 1979.

  • Butti de Lima, Paulo. "Parametri antichi dell’utopia." Revista Polis, vol. 5, n. 2 (2017): 9–25.

  • Iacono, Alfonso M. "Rousseau e l’ingannevole sogno dell’utopia come fine del risentimento." Atque, n. 19 (2015): 141–152.

  • Lauriola, Rosanna. "The Greeks and the Utopia: An Overview Through Ancient Greek Literature." Espaço Acadêmico, 97 (2009): 17–30.

  • Mumford, Lewis. Storia dell’utopia. Milano: Feltrinelli, 2017.

  • Stanford Encyclopedia of Philosophy. "Plato's Utopia." Last revised 2020. https://plato.stanford.edu/entries/plato-utopia/

venerdì 11 aprile 2025

Il caso Moro e la storia controfattuale: immaginare un altro futuro

Moro libero, nel finale del film di Bellocchio


Cosa sarebbe successo se Aldo Moro fosse uscito vivo da via Caetani? Se il suo progetto politico fosse andato avanti? Se la storia dell’Italia avesse preso un’altra piega? A immaginare uno scenario diverso sono stati negli ultimi anni due opere che hanno colpito pubblico e critica: la serie Esterno Notte di Marco Bellocchio e il film per la TV Il caso Moro (2022), dove la narrazione si concede, in modi diversi, una deviazione dalla realtà: Moro viene liberato, o comunque sopravvive. 

Una scelta narrativa audace! Cioè: storia controfattuale, quella che prova a ragionare su come sarebbero andate le cose se certi eventi non fossero accaduti o se fossero andati in altro modo. Non è solo un esercizio intellettuale. È anche un modo per dare profondità alla comprensione di ciò che è realmente accaduto, immaginando le strade che non sono state percorse.

Il caso Moro è un bivio storico. Proprio per questo è fonte di interesse anche letterario e non solo storico e documentario. Il progetto politico troncato –  il 'compromesso storico' che mirava a portare insieme la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista – avrebbe potuto sbloccare un’Italia paralizzata dalla guerra fredda, da una conflittualità ideologica asfissiante, da un sistema incapace di evolversi. 

Non è successo. E se fosse accaduto?

Il versante umano della vicenda Bellocchio l'ha indagato con questa prospettiva. E sul piano storico?

A riflettere, con rigore e ampiezza di sguardo, su questa stagione storica è Miguel Gotor, con il suo saggio
Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve (1966–1982)
, pubblicato da Einaudi nel 2022. È un libro che tiene insieme molte voci, molti materiali – non solo le fonti classiche, ma anche canzoni, pubblicità, film – per restituire il clima di quegli anni. E lo fa con uno stile che non rinuncia all’analisi, ma resta accessibile anche per chi non è specialista.

Nel ripercorrere gli eventi che hanno condotto all’assassinio di Moro, Gotor mette a fuoco le forze in gioco, i diversi attori politici (nazionali e internazionali), le ambiguità, i silenzi, le resistenze. Uno scavo paziente, che mostra quanto fosse fragile l’equilibrio su cui si reggeva quel tentativo di apertura democratica. E quanto sia costato – in termini politici, culturali, simbolici – il fallimento di quell’apertura.

Il libro non indulge in ipotesi immaginarie, ma lascia spazio al lettore per formulare una domanda inevitabile: se Moro fosse rimasto in vita, cosa sarebbe successo al suo progetto? Proviamo a mettere giù qualche ipotesi:

1. Il rafforzamento della democrazia e della stabilità politica. Se Moro fosse riuscito a concretizzare il suo progetto, è possibile che l'Italia avrebbe vissuto un periodo di maggiore stabilità politica. Il compromesso avrebbe consentito una governabilità più solida, riducendo le fratture politiche e sociali. La collaborazione tra la DC e il PCI, due partiti con ampie basi elettorali ma ideologicamente distanti, avrebbe creato una piattaforma comune che avrebbe potuto alleggerire il peso del conflitto ideologico che caratterizzava gli anni '70. Con un accordo stabile tra questi due partiti, il paese avrebbe probabilmente evitato il periodo di instabilità politica che ha caratterizzato gli anni successivi, caratterizzato da frequenti cambi di governo e da una continua ricerca di maggioranze parlamentari. La pace sociale, che avrebbe potuto derivare da una maggiore cooperazione politica, avrebbe anche ridotto la violenza politica, con la conseguente diminuzione di episodi come quelli legati agli anni di piombo.

2. Il potenziamento della sinistra e la possibile evoluzione del Partito Comunista. Uno degli aspetti più significativi del progetto di Moro era l'inclusione del PCI nel governo, il che avrebbe potuto cambiare profondamente il panorama politico italiano. L'ingresso dei comunisti nella gestione diretta del potere avrebbe dato loro un ruolo chiave nella politica economica e nelle riforme sociali del paese. In un contesto in cui il PCI fosse stato accettato come forza politica di governo, il partito avrebbe probabilmente adottato politiche riformiste, avvicinandosi sempre di più alle pratiche di altri partiti comunisti europei, come quelli francesi o spagnoli. Questa evoluzione avrebbe potuto avere un impatto anche sulle politiche sociali e sulle riforme del welfare, con il PCI impegnato a migliorare le condizioni dei lavoratori e a introdurre leggi più progressiste. Inoltre, la sinistra italiana avrebbe probabilmente trovato una propria collocazione all'interno dell'Europa, rendendo l'Italia un attore più influente nei forum politici e nelle alleanze internazionali, come la Comunità Economica Europea.

3. Le ripercussioni internazionali. Il progetto di Moro avrebbe avuto un'influenza non solo sul piano interno, ma anche sul piano internazionale. Gli Stati Uniti, che avevano sempre temuto l'influenza del PCI in Italia, avevano visto il compromesso storico con una certa preoccupazione. Tuttavia, non si può escludere che Moro e Berlinguer avrebbero trovato il modo per accreditarsi come interlocutori fidati e che un'indagine diplomatica più accurata da parte della diplomazia americana avrebbe portato all'approvazione del PCI come forza politica legittima. Inoltre, la strategia della tensione, che ha avuto come uno degli obiettivi quello di destabilizzare il paese per impedire la crescente influenza del PCI, avrebbe potuto perdere parte della sua efficacia. Se l’Italia avesse potuto essere più stabile politicamente, le forze esterne, in particolare gli Stati Uniti e la NATO, avrebbero potuto ridurre la loro ingerenza nelle questioni interne italiane.

4. La lotta armata e gli anni di piombo. Un altro aspetto da considerare è se il compromesso storico avrebbe ridotto o radicalizzato la violenza politica che ha segnato gli anni '70, soprattutto con il fenomeno della lotta armata. Se la sinistra moderata, rappresentata dal PCI, fosse stata parte integrante del governo, i gruppi estremisti, come le Brigate Rosse, avrebbero perso o guadagnato terreno? Il terrorismo sarebbe stato meno fertile in un contesto di maggiore inclusività politica, dove le istanze di cambiamento sociale e politico trovavano una risposta istituzionale? Forse, un maggior controllo sulla sicurezza interna da parte di un governo più stabile avrebbe potuto ridurre le azioni di violenza e le stragi, creando un ambiente in cui le frustrazioni politiche avrebbero avuto meno terreno fertile per esprimersi con la violenza.

5. La trasformazione della Democrazia Cristiana. Il successo del progetto di Moro avrebbe avuto anche un impatto importante sulla Democrazia Cristiana, che avrebbe dovuto adattarsi alle nuove dinamiche politiche. La DC, in alleanza con il PCI, avrebbe potuto divenire un partito più orientato a riformare il sistema politico e sociale, piuttosto che concentrarsi sulla difesa dello status quo. Questo cambiamento avrebbe potuto portare a una evoluzione ideologica all'interno della DC, con il partito che avrebbe assunto una posizione più moderata e riformista, orientata verso un'ulteriore modernizzazione del paese.

6. Un paese diverso? Se il compromesso storico fosse stato attuato con successo, l’Italia avrebbe potuto vivere un periodo di transizione verso un sistema politico e sociale meno polarizzato. La cooperazione tra la DC e il PCI avrebbe consentito al paese di affrontare in modo più equilibrato le sfide economiche, sociali e politiche, riducendo la violenza politica e le tensioni sociali. Sarebbe stato un passo importante verso un’Italia più unita? meno divisa, con una politica estera più orientata a trovare soluzioni di compromesso e dialogo, sia all’interno che a livello internazionale.

Maggiore inclusione del PCI nel sistema, raffreddamento della tensione interna, forse un’Italia meno incline alla delegittimazione reciproca. 

O forse no. Ma resta il fatto che la sua morte ha chiuso una possibilità, e aperto un tempo nuovo – più cupo, più duro.


venerdì 4 aprile 2025

Se Sparta fosse stata più audace...


Nella tarda estate del 411 a.C., in un clima di paura e di confusione generato dal colpo di stato oligarchico, giunse ad Atene la notizia della disfatta della flotta inviata ad Eretria al comando dallo stratego Timocare: ventidue delle trentasei navi ateniesi erano state catturate dai Peloponnesiaci e i loro equipaggi uccisi, altri Ateniesi erano stati ammazzati dagli Eretriesi, i restanti erano stati catturati, in pochi si erano salvati giungendo a Calcide o rifugiandosi nel fortino ateniese di Eretria: tutta l'Eubea, tranne Oreo, fu indotta alla ribellione dagli Spartani.

La sconfitta, com'era naturale data la centralità dell'Eubea nel sistema di approvvigionamenti di Atene, produsse imme­diatamente un enorme spavento; più grande, a detta di Tucidide, dello sgomento provocato dal disastro in Sicilia: si temeva infatti che gli Spartani ponessero l'assedio ad Atene stessa o che, ormeggiatisi contro, inducessero gli alleati ad accorrere in aiuto, lasciando incustodite le loro poleis. Cosa che avrebbe reso tutto l'impero una facile preda per i nemici. 

Ma la previsione non si verificò. Gli Spartani non si mossero.

"Se i nemici - osserva acuto e caustico Tucidide - dopo aver ottenuto la vittoria, avessero osato dirigersi immediatamente verso il Pireo, che era privo di navi, dal momento che non se ne prevedeva la presenza, avrebbero fatto ciò con facilità se fossero stati più audaci, e avrebbero o ulteriormente diviso la città assediandola, oppure, se fossero rimasti a stringerla d'assedio, avrebbero costretto le navi provenienti da Ionia, benché ostili agli oligarchi, a soccorrere i loro stessi compatrioti e l'intera città. E in tal caso avrebbero avuto l'Ellesponto, la Ionia, le isole, il territorio fino all'Eubea e, per così dire, l'intero dominio ateniese. Per gli Ateniesi, i Lacedemoni furono fra tutti i nemici più utili contro cui combattere, anche in molte altre occasioni: essendo infatti assai diversi nel carattere, veloci i primi, lenti i secondi, gli uni temerari gli altri privi di iniziativa, furono di gran giovamento soprattutto all'impero marittimo".

La storiografia greca, inclusa quella di Tucidide, presenta spesso aperture alla storia virtuale attraverso ipotesi controfattuali: Tucidide spesso collega le riflessioni controfattuali alle speranze, alle aspettative, ma soprattutto agli indugi e alle paure dei protagonisti. In questo contesto, l'incapacità spartana di agire decisivamente nel 411 potrebbe essere vista come un "indugio" con conseguenze storiche significative.

Tucidide si chiede dunque: cosa sarebbe successo se gli Spartani avessero colto appieno, con audacia, l'opportunità nel 411 a.C.? 

In un momento di instabilità politica ad Atene, segnato dal colpo di stato dei Quattrocento, un'azione militare spartana decisa e tempestiva avrebbe potuto infliggere un colpo mortale ad Atene. La flotta, che era in maggioranza democratica e che si trovava di stanza a Samo, era riluttante a riconoscere il nuovo governo oligarchico. Se gli Spartani avessero attaccato in quel frangente, avrebbero potuto sfruttare la divisione interna ateniese e la potenziale mancanza di coordinamento tra le forze navali e la città. 

Una vittoria spartana nel 411 avrebbe accorciato avuto importanti riflessi sia nella politica interna che nel contesto internazionale: sul fronte interno, la restaurazione della democrazia, che in effetti avvenne successivamente, sarebbe potuta essere più difficile o addirittura impossibile. Una sconfitta precoce avrebbe potuto consolidare un regime oligarchico filo-spartano ad Atene. 

Ma la conclusione anticipata della guerra avrebbe portato a un diverso equilibrio di potere nel mondo greco. Sparta avrebbe consolidato la sua egemonia molto prima, e la successiva storia del IV secolo a.C., con l'ascesa di Tebe e il regno di Filippo II di Macedonia, avrebbe potuto prendere una piega differente. 

Il fatto che gli Spartani non abbiano agito in modo decisivo nel 411 e abbiano continuato una guerra logorante - paradossalmente - potrebbe aver permesso ad Atene di riprendersi e, in ultima analisi, di non essere completamente annientata. In questo senso, la loro "utilità" come nemici è evidente nel fatto di non aver inflitto il colpo di grazia in un momento di vulnerabilità ateniese, permettendo una successiva, seppur travagliata, ripresa.

Tucidide usa spesso il ragionamento controfattuale per evidenziare l'importanza delle decisioni (o delle mancate decisioni) dei leader e le responsabilità morali e politiche. L'indugio spartano nel 411, analizzato in chiave controfattuale, mette in luce la mancanza di lungimiranza o di capacità di cogliere il momento opportuno da parte della leadership spartana; ma non si può escludere che lo sviluppo dell'idea controfattuale di una precoce vittoria degli Spartani possa servire a coinvolgere il lettore a livello emozionale, creando sollievo per una soluzione peggiore evitata o rimpianto per un'occasione perduta,  consapevolezza della precarietà degli eventi storici e dell'importanza delle scelte in momenti critici.

Bibliografia:

Robert Cowley, La Storia fatta con i Se. Se Napoleone avesse vinto a Waterloo e altri eventi che avrebbero potuto cambiare il mondo, BUR, Milano 2001, traduzione dell'edizione originale in inglese What If? The World’s Most Foremost Military Historians Imagine, Putnam, New York 1999.

Niall Ferguson, Virtual History. Alternative and Counterfactual, Basic Books, New York 1997 (ristampato nel 2011 per Penguin Books). Questa opera è considerata fondamentale sulla storia virtuale e il pensiero controfattuale.

Richard J. Evans, Altered Pasts: Counterfactuals in History, Little, Brown, London 2016.

V. Balestra, Origini dell’ucronia. La letteratura contro la storia, Bologna 2013 (Diss.).

K. Bassi, Spatial Contingencies in Thucydides’ History, ClAnt 26 (2007), 171-218.

E. Bianco, Craintes, espoirs et conseils: essais pour une histoire alternative chez Thucydide, in A. Grandazzi - A. Queyrel Bottineau (éds.), Antiques uchronies. Quand Grecs et Romains imaginent des histoires alternatives, Dijon 2018, 81-93.

E. Bianco, Alcibiade e la storia virtuale, in E. Dimauro (a cura di), Μεταβολή. Studi di Storia antica offerti a Umberto Bultrighini, Chieti, in corso di stampa.

S. Flory, Thucydides and the Ancient Simplicity: The Limits of Political Realism, in Classical Antiquity, 7 (1988), pp. 1-16.

M. Hau, Lucid Hindsight. The Historian as Judge in Herodotus, Thucydides, and Xenophon, Cambridge 2013.

T. Ponchon, La virtualisation du passé chez Thucydide, in A. Grandazzi - A. Queyrel Bottineau (éds.), Antiques uchronies. Quand Grecs et Romains imaginent des histoires alternatives, Dijon 2018, 95-109.

R. Tordoff, Counterfactual Thinking and World Politics: Social Science Perspectives, in European Journal of International Relations, 20 (2014), pp. 105-127.

J. Grethlein, Experience and Teleology in Ancient Historiography. From Herodotus to Augustine, Cambridge 2013.


venerdì 28 marzo 2025

Globalizzazioni antiche: l'età del Bronzo


Riproduzione dei rilievi, in parte perduti, che rievocano la spedizione della regina egizia Hatshepsut nella terra di Punt (parete del portico sito sulla parte sinistra della seconda terrazza del tempio di Deir el-Bahari): la famiglia reale di Punt seguita da un corteo accoglie gli inviati egizi


Negli ultimi decenni le scoperte archeologiche hanno avuto - sulla storia antica - lo stesso effetto rivoluzionario che i telescopi di nuova generazione, da Hubble a Euclid, hanno avuto sull'astronomia. È di molto aumentata la nostra capacità di vedere, non nello spazio, ma indietro nel tempo. 

Nell'età del Bronzo, precisamente. 

Un periodo lunghissimo, di almeno un millennio, lo stesso che ci separa dalla fine dell'Alto Medioevo! Gli ultimi tre secoli (XV-XII sec. a.C.) in particolare - cioè il Tardo Bronzo - hanno visto il raggiungimento di un altissimo livello di interconnessione (una globalizzazione!) prima; e un collasso dei sistemi, poi.

Dal collasso del mondo globale del Tardo Bronzo sono emerse alcune delle idee e pratiche che tuttora usiamo: la scrittura alfabetica, l'iniziativa economica individuale, le città. Prima, e per un millennio abbondante, un altro tipo di scrittura, un'economia centralizzata e fondata sui 'palazzi'. 

Ma torniamo a prima del collasso. Quello che le ricerche archeologiche sono state in grado di dirci sul mondo globalizzato del Tardo Bronzo è veramente sorprendente! 

Gli archivi di Mari, un sito sul lato occidentale del fiume Eufrate, nell'odierna Siria documentano scambi commerciali fra regioni anche molto lontane del Mediterraneo orientale: dall'Egitto, da Creta, arrivavano in Mesopotamia stoffe, tessuti, armi, gioielli, scarpe. A Creta, gli scavatori dei palazzi minoici hanno trovato oggetti personali appartenuti a re hyksos (il popolo che aveva invaso e sottomesso per un certo tempo l'Egitto), anfore cananee, sigilli cilindrici mesopotamici. Negli affreschi delle tombe egizie si trovano effigiati (riconoscibili dall'abbigliamento) Minoici che portano doni ad alti funzionari egizi; ma sono documentate nei documenti egiziani anche spedizioni dall'Egitto verso regioni più o meno note: la terra di Punt, la terra di Isy, Canaan, il Sinai. Alla ricerca di rame, turchesi, legno da costruzione, zanne d'avorio. E in Anatolia (attuale Turchia) a 200 km da Ankara è stata di recente trovata una spada micenea, con iscrizione in accadico (il linguaggio diplomatico dell'Età del Bronzo) dedicata da un re ittita che aveva sedato una rivolta. 

Questi dati ci dicono che nel XV e XIV secolo a.C. vi erano intensi scambi fra mondo egeo, Creta, Egitto, Mesopotamia, Anatolia: missioni diplomatiche, viaggi di mercanti, scambi di lettere, trattati di pace, matrimoni e inviti fra dinasti. Nell'archivio di Amarna, scoperto nel 1887 in Egitto e contenente la corrispondenza di Amenofi III, troviamo le lettere di accompagnamento di queste spedizioni: "per mezzo della presente, ti mando 1 carro, 2 cavalli, 1 servitore maschio etcc..."  - dice per esempio Amenofi III a Tushratta, re di Mitanni. Queste liste arrivavano fino a 300 righe di 'doni' che un re mandava ad un altro, insieme a personale specializzato: artisti, scribi, funzionari, perfino figlie date in sposa. A volte le merci inviate si perdevano, venivano rubate durante il cammino o si rivelavano false come lamenta il re Burna-Buriash, cassita di Babilonia, di un carico di oro mandatogli da Akhenaton, faraone egiziano. 

Una regina d'Egitto chiede persino, per lettera, al re ittita Suppiluliuma di darle un figlio come sposo, essendo rimasta vedova. Il re, dopo alcuni tergiversamenti, manda suo figlio: Zannanza. Ma durante il viaggio per l'Egitto, in un'imboscata, Zannanza muore e il re Suppiluliuma non esita a gridare al complotto ordito ai suoi danni dall'Egitto!

Le fonti citate fin qui erano note da tempo, almeno da fine '800. 

Per il XIII secolo disponiamo invece di fonti nuove: negli anni '80 è stato trovato il relitto di una nave che risale addirittura al 1300 a.C.: la nave di Uluburun: trasportava vetro grezzo, anfore per lo stoccaggio di orzo, resina, spezie, stagno e rame grezzi, veleggiando da est a ovest. Era una nave lunga 15 metri, in legni di cedro del Libano, inabissatasi a 40 metri di profondità. Le merci che trasportava, recuperate grazie agli enormi progressi dell'archeologia subacquea, provenivano da almeno 7 regioni diverse e il suo equipaggio - a giudicare dai piccoli oggetti personali recuperati - era in parte miceneo. Altri relitti sono stati trovati e studiati negli anni '90: il relitto di Punta Iria, lungo la costa dell'Argolide che risale al 1200 a.C. e il relitto di Kumulka scoperto nel 2018 nella stessa zona della nave di Uluburun, che risale addirittura al XVI-XV secolo. 

Nuove parti di siti archeologici già conosciuti - come Ugarit - sono poi state scavate e i materiali pubblicati dagli anni '90 e fino al 2016, come la "casa di Urtenu" a Ugarit e il suo ricco archivio di lettere inviate dal re di Ugarit ai re di Assiria, Egitto, Karkemish, Sidone, Hattusha. Un tale Zu-Astarti scrive per esempio di varie traversie subite durante un viaggio per mare relativo ad un commercio di cavalli, che non era certo fossero stati ricevuti dal destinatario. 

Un'altra però, mandata dall'ultimo re di Ugarit, Ammurapi, al vicerè ittita a Karkemish, ha tutt'altro tono! Ugarit è seriamente minacciata da imprecisati nemici! Sono urgenti rinforzi e aiuti militari!

Sappiamo che la lettera o non fu inviata affatto o non fu inviata in tempo, perché Ugarit, come molti altri centri e capitali del Tardo Bronzo fu distrutta. Nel giro di pochi decenni, la società del Tardo Bronzo collassò in quella che Eric H. Cline, nel suo libro 1177 a.C. Il collasso della civiltàdefinisce "una tempesta perfetta di calamità": terremoti (molti siti mostrano lunghi muri fuori asse e colonne rovesciate che giacciono parallele); invasioni  e/o rivolte intestine (segni di incendi e punte di frecce); malattie e carestie, megasiccità (provata dalle recenti ricerche sui paleoclimi). Nessuno di questi elementi, da solo, avrebbe potuto causare una crisi dalle dimensioni spaventose come quella che annientò Minoici, Micenei, Ittiti e costrinse a riorganizzarsi Assiri, Cananei, Egizi con modelli di insediamento diverso ed economie locali.

L'effetto congiunto di questa serie impressionante di calamità provocò il crollo dei commerci internazionali, il collasso dell'organizzazione amministrativa centralizzata, la scomparsa della classe dirigente tradizionale, il collasso dell'economia di scambio, l'abbandono di insediamenti e il declinio demografico. La situazione che si verificò è stata spiegata dagli studiosi con il concetto di "collasso di sistemi": una serie di reazioni a catena che amplificano il potenziale distruttivo dei singoli elementi di crisi - magari inaspettati e imprevedibili - "cigni neri" - e causa una riduzione improvvisa e significativa della complessità sociopolitica del sistema.

Il collasso dei sistemi complessi che avevano dominato il Vicino Oriente e il Mediterraneo orientale durante l’Età del Bronzo fu un evento determinante nella storia delle civiltà antiche. Questo fenomeno segnò la fine di un'epoca durata oltre un millennio, caratterizzata da reti commerciali interconnesse, strutture politiche centralizzate e modelli economici sofisticati.

La teoria della complessità offre un quadro interpretativo efficace per comprendere le dinamiche di questo collasso. L’interdipendenza tra economia, politica e commercio creò un equilibrio dinamico altamente sensibile a shock esterni e a processi interni di instabilità. Una volta compromesso questo equilibrio, si innescò un effetto domino che portò al crollo dell’intero sistema. Il collasso dell’economia di scambio, elemento cardine di questo equilibrio, determinò la crisi delle ambascerie reali, il crollo delle reti di approvvigionamento e la disintegrazione delle corrispondenze diplomatiche, aggravando il processo di frammentazione politica e sociale. 

La complessità delle società del Tardo Bronzo sarebbe dunque un predittore della crisi; mentre il loro grado differente di flessibilità e ridondanza sistemica avrebbe protetto alcune dagli eventi devastanti del crollo e determinato invece l'impossibilità di risollevarsi per altre. 

Le dinamiche di collasso osservate nel Tardo Bronzo non appartengono solo al passato: cicli simili sono documentabili in molte altre epoche, a scala più o meno ridotta. Anche le società contemporanee dipendono da sistemi complessi e interconnessi, vulnerabili a shock improvvisi e a processi di destabilizzazione endogena. Le crisi economiche globali, i cambiamenti climatici e le tensioni geopolitiche dimostrano come l’interdipendenza possa trasformarsi in fragilità. 

Comprendere il crollo delle civiltà del Tardo Bronzo attraverso strumenti come la teoria dei sistemi potenzia la nostra capacità di analizzare i rischi del presente e le strategie di resilienza necessarie a evitare il ripetersi di dinamiche distruttive.


I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multi...