domenica 13 luglio 2025

Oggetti personali e identità

Achille cura la ferita al braccio sinistro di Patroclo. Kylix attica a figure rosse del Pittore di Sosias, datata intorno al 500 a.C


Se l'identità di Odisseo è riposta anche negli abiti che indossa, l'identità di Achille risiede invece nelle armi. 

La storia delle armi di Achille percorre per esempio, come una trama sommersa, tutto il poema dell’ira. Achille appare, a se stesso e agli altri eroi che combattono a Troia, come «forte quanto nessuno dei Danai chitoni di bronzo, in guerra». Questa forza viene declinata più precisamente dal fiume Scamandro, irato contro Achille come: «forza (…) prestanza (…) armi belle». Egli è dunque un guerriero, ma più precisamente un guerriero armato. 

Le armi di Achille rivestono, in realtà, non solo una notevole importanza in tutto il poema, ma anche un ruolo decisivo nella stessa vita di Achille e nella sua decisione di combattere a Troia. Secondo una tradizione raccolta da Euripide e da Sofocle, per sfuggire al suo destino di morte, cui sarebbe andato incontro combattendo contro i Troiani – come profetizzato da Calcante – Achille avrebbe trovato rifugio alla corte di Licomede a Sciro, travestito da fanciulla. Odisseo, incaricato con Fenice di condurre l’eroe a Troia, trovatolo a Sciro fra le fanciulle del luogo, distribuì canestri e oggetti femminili mescolati ad armi: le fanciulle si precipitarono impazienti sugli ornamenti femminili, mentre Achille svelò la sua identità afferrando le armi. Secondo una versione differente del medesimo tema, fu invece il suono di una tromba e il fragore delle armi a far scoprire Achille: supponendo che il nemico fosse alle porte, Achille si sarebbe liberato degli abiti femminili e avrebbe afferrato la spada e lo scudo. Questi racconti, verosimilmente trattati dai poemi del “ciclo epico”, di cui abbiamo ben poco e assenti nell’Iliade (che però conosce la predizione di morte prematura di Achille in caso di partecipazione alla guerra di Troia), mostrano come l’identità di Achille sia fortemente legata alle armi.

Nell’Iliade, Achille veste dapprima la panoplìa che già era stata del padre Peleo, dono a quest’ultimo degli dei per le nozze con Teti. Sono dunque armi immortali,

(…) che i numi figli del Cielo

donarono al padre suo; ed egli al figlio le diede,

da vecchio; ma il figlio non invecchiò nell’armi del padre

Al suo carro sono aggiogati cavalli profetici, anch’essi divini e donati dagli dei a Peleo:

Xanto e Balío, velocissimi figli del vento Zefiro e dell’Arpia Podarghe. 

A queste armi sembra legato un potere specifico: quando Ettore, dopo averle tolte a Patroclo morto, le indossa, Zeus in persona deve acconsentire a che le armi gli “si adattino”, entri in lui Ares e gli riempia le membra di vigore e di forza. La panoplìa è così descritta in un gruppo di versi formulari che illustrano la vestizione di Patroclo:

Prima intorno alle gambe si mise gli schinieri

belli, muniti d’argentei copricaviglia;

poi intorno al petto vestì la corazza

a vivi colori, stellata, dell’Eacide piede rapido.

S’appese alle spalle la spada a borchie d’argento

bronzea, e lo scudo grande e pesante;

sulla testa gagliarda pose l’elmo robusto,

con coda equina; tremendo sopra ondeggiava il pennacchio

Di essa fa parte pure un’asta:

grande, pesante, solida: nessuno dei Danai poteva

brandirla, solo Achille a brandirla valeva,

faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,

dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri.

L’Iliade conosce altri di questi manufatti, opera di artigiani mitici, donati dagli dei a un mortale e alla sua discendenza. Il più celebre è certamente lo scettro di Agamennone, che ha un ruolo molto importante nell’Iliade. La sua funzione primordiale è quella del bastone del messaggero: lo scettro è l’attributo di un itinerante che avanza con autorità, non per agire ma per parlare. Esso:

(…) qualifica il personaggio che porta la parola, personaggio sacro, la cui missione è di trasmettere il messaggio d’autorità. È da Zeus che parte lo skeptron che, attraverso la catena dei detentori successivi, arriva ad Agamennone. Zeus lo dona come insegna di legittimità a quelli che egli designa perché parlino in suo nome (Benveniste).

La panoplìa di Achille ha un significato analogo. Medesima è la catena di trasmissione, medesimo è il rapporto fra donatori – Zeus, gli dei Uranii (se Agamennone ha un rapporto privilegiato con Zeus, Achille è infatti in relazione con più di una divinità, Teti, sua madre, Atena, Era, Efesto e in special modo con i messaggeri Iride ed Ermes) – e i donati. Sembra dunque che le armi divine di Achille siano l’attributo di colui che è investito dalla missione di «dar morte ai guerrieri». Chi le brandisce, agisce in nome degli dei, è ed animato da essi.

Lo scettro di Agamennone ha tuttavia un uso duplice: Agamennone lo detiene usualmente, ma i partecipanti all’assemblea lo tengono in mano a turno quando prendono la parola: è il dono di Agamennone, ma può essere temporaneamente acquisito da ciascuno dei capi achei. Lo scettro consente due modi differenti di configurare l’autorità che esso esemplifica: un modo permanente, che è quello di Agamennone, la cui identità fa tutt’uno con esso; un modo temporaneo, quello dei capi achei, che accedono all’autorità in un tempo e uno spazio determinati, quelli della parola assembleare. Una siffatta duplicità è presente anche nelle armi di Achille, sebbene diversamente organizzata: la panoplìa comprende infatti una parte – schinieri, corazza, spada, scudo, elmo – che può essere temporaneamente indossata da un portatore diverso da Achille. 

A vestirla saranno, con esiti diversi, Patroclo ed Ettore. 

Un’altra parte della panoplia, l’asta di faggio del Pelio, è invece legata indissolubilmente ad Achille: egli soltanto può legittimamente usarla «nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva». Ora, l’asta da combattimento è l’arma offensiva per eccellenza, è la dimostrazione del desiderio del guerriero greco, dell’oplita, di «avvicinarsi al nemico per trafiggerlo guardandolo in faccia». In questo, essa è profondamente diversa dall’arco e dalle armi da lancio, disprezzate dai Greci e considerate armi tipiche del guerriero barbaro o dei ragazzi non iniziati. È l’arma che esprime la superiorità morale del guerriero che affronta il nemico nel faccia a faccia. 

Un primo momento di riflessione riguarda la possibilità di “prestare” le proprie armi. Nell’Iliade, il saggio Nestore, fallito ogni tentativo di persuadere Achille a partecipare alla battaglia, suggerisce a Patroclo di dare questo consiglio all’amico: se non vuole egli stesso partecipare alla guerra, mandi Patroclo, dia a lui le sue armi, cosicché i nemici, credendo di trovarsi davanti Achille, fuggano via dando momentaneo respiro agli Achei. Nestore conosce il potere delle armi di Achille, il loro potere evocativo e deterrente che vuole usare per difendere l’esercito in un momento di estremo pericolo. Patroclo dunque si reca dall’amico e gli illustra il pericolo imminente. Achille cede, ed ecco il suo piano: Patroclo vestirà le sue armi per difendere le navi dalla rovina, riconquistare la fama per Achille in modo che egli possa vedersi restituita la schiava e i doni. Ma egli non deve combattere, non deve guidare l’esercito. Morti Troiani e Achei, Achille e Patroclo - soli - si salveranno e avranno tutta la gloria.

Patroclo dunque obbedisce e veste le armi di Achille, ad eccezione dell’asta, che non può brandire: la superiorità morale del guerriero che combatte nel faccia a faccia non è – potremmo dire – il “suo” dono; egli può invece “vestire” l’armamento difensivo. 

Ma può Patroclo - sul piano simbolico - indossare l’armatura da difesa di Achille? E per farne quale uso, se non può guidare l’esercito, come Achille gli ha ingiunto? 

Anzitutto, occorre sottolineare che Patroclo è legato ad Achille da una particolare synousia, che Nestore ha suggestivamente evocato: ciò vuol dire che esiste fra i due un accordo che risiede nella comune esperienza esistenziale, ma che va anche al di là di essa. L’identità di Patroclo è infatti parzialmente coincidente con quella di Achille: essi condividono una certa disposizione alla difesa, alla cura difensiva. Achille, che è stato istruito nelle arti mediche da Chirone, è colui che si accorge con dolore della sofferenza degli Achei decimati dalla peste e che si impegna a proteggere Calcante se costui dirà la verità.

Anche Patroclo è votato alla cura e alla dedizione: questo aspetto del suo carattere è evidenziato proprio nell’episodio ora menzionato. Infatti fra i due momenti salienti, quello in cui egli riceve da Nestore il consiglio di vestire le armi di Achille e quello in cui egli, riferito ad Achille il colloquio e accordatosi con lui, ne veste infine le armi; fra questi due momenti c’è uno strano e incongruo intermezzo. Congedatosi da Nestore, che gli aveva fatto un quadro tragico delle ferite inferte agli eroi Achei, Patroclo incontra proprio un compagno ferito, devia dalla sua originaria a prioritaria missione (egli ha fatto anche fretta a Nestore, ricordandogli il carattere iroso di Achille, dal quale deve al più presto tornare) per portare soccorso al compagno, aiutarlo a rientrare nella sua tenda, assisterlo e trattenersi con lui fino all’ultimo momento utile, in cui finalmente si ricorda della missione da portare a compimento. 

Come interpretare questa incongruenza narrativa? 

È agevole leggere in questo intermezzo una puntualizzazione efficace della identità di Patroclo: egli è uomo della cura e dell’assistenza, dell’azione oblativa e disinteressata, che compie malgrado tutto, anche quando dovrebbe evitarla.

Questa sua azione oblativa fa tutt’uno con il ruolo di angelos, che egli riveste in conseguenza dell’inattività di Achille. L’angelos è una figura tipica della tragedia, ma rispecchia la pratica comune degli informatori, figure spontanee che convertono eventi in notizie e se ne fanno latori più o meno interessati; ovvero – come in questo caso – tramiti passivi di messaggi spediti da un emittente ad un destinatario. Questi ultimi possono poi essere latori di messaggi ingiuntivi, in tal caso saranno “araldi” professionali con prerogative speciali, o semplicemente informativi. L’ angelos ha di norma uno statuto subalterno, può essere un diretto dipendente o uno schiavo; egli deve – come Patroclo in effetti fa - ripetere fedelmente il messaggio dell’emittente, dopo averlo memorizzato. 

Ricapitoliamo: Patroclo non ha una sua identità “personale” di eroe guerriero. Il suo statuto non lo consente: agendo, ascoltando, vedendo, parlando egli lo fa in nome e per conto di Achille. Il suo rapporto con Achille fa sì che egli possa materialmente vestirne, in modo credibile e verosimile, la panoplìa; non come un eroe vestirebbe la sua propria panoplìa di guerriero, bensì come qualcuno che condivida, partecipandovi, il “dono”, l’identità di colui che egli rappresenta. La forza guerriera, “dar morte ai guerrieri” che Achille legittimamente esercita e incarna, potendone evocare negli dei Uranii la fonte, non è accessibile direttamente a Patroclo (ma lo sarà per Ettore). Egli condivide, per la synousia con Achille che il suo essere angelos comporta, la vocazione alla difesa dei compagni attaccati e assediati dal nemico.

L’idea che la vestizione delle armi di Achille da parte di Patroclo suggerisce è quella linguistica della “citazione”: Patroclo sta citando un atto, “la vestizione del guerriero”: egli sa “come si fa” per averlo visto fare ad Achille tante volte, ma il gesto che ne risulta è debole (manca l’asta di Achille) e la sua efficacia apparente. Armato, Patroclo si mostra come guerriero, ma tutto ciò che può ottenere è la riconoscibilità di una forma visiva: è una forma-di-guerriero. Le armi restano per Patroclo sostanzialmente estranee, come non sono per Achille e come non saranno per Ettore. Egli le usa in via “emergenziale”, a scopo deterrente, per essere visto. Il suo scopo non può essere quello del combattimento faccia e faccia, può essere soltanto quello di tenere lontani i nemici, di presidiare le navi, delimitare e tenere al sicuro un certo spazio, quello in cui Achille è confinato, difendere dall’aggressività nemica la fonte della propria identità “angelica”. Un fenomeno che i linguistici chiamano "automarcatura".

Si può leggere dunque la differenza fra Patroclo e Achille rispetto alle armi come differenza fra le armi indossate come insegne di una autorità capace di conferire valore normativo; e le armi usate per essere osservati. Questo secondo uso è reso necessario dal rifiuto di Achille di usare le sue armi nel primo senso: un rifiuto in cui collidono i due aspetti della sua techne di guerriero: la difesa della città assediata, del bottino, la guerra come corpo a corpo col nemico, - ed è l’asta a esprimere bene questa idea della guerra come relazione, come fronteggiarsi - e l’idea della guerra come occasione di trionfo personale, di gloria individuale.

Cerchiamo di trarre qualche conclusione. Che tipo di comunicazione è possibile fra Patroclo e Achille? L’episodio di Patroclo mostra, a mio avviso, il pericolo insito nell’identificazione, anzi il limite stesso dell’identificazione empatica. Quando la trasmissione dei comportamenti è verticale, quando cioè la relazione normativa avviene fra membri diversamente dislocati nella comunità (Achille, l’eroe guerriero e Patroclo, l’angelos) l’identificazione empatica è letale. In questi casi, quando cioè è autorevole soltanto colui il quale è intermediario rispetto alla fonte divina (il padre, gli antenati, Achille, Agamennone), l’individuo singolarmente considerato, al di fuori della catena verticale di trasmissione, non ha alcuna autorità, non può “armarsi”, non può salvarsi né resistere allo straniero, può solo travestirsi. 

Ciò equivale a dire che, non essendo possibile menzionare le parole di un'altra persona senza diventare quella persona per lo spazio della imitazione, ed essendo al contempo impossibile una identificazione totale fra individui socialmente diversi, il discorso non si può staccare dal suo produttore, non può circolare liberamente ed essere usato laddove è necessario. 

La separazione fra regno e governo, per l’autore dell’Iliade, è nefasta e mortifera.

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