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| Il coro delle Nuvole, nell'allestimento di A. Calenda a Siracusa (2021) |
Nell’Annunciazione ai pastori di Taddeo Gaddi, a Santa Croce, un angelo incandescente abbaglia due pastori, uno dei quali cerca di proteggersi coprendo il volto con la mano.
Gaddi, allievo di Giotto e autore di un ritratto di Dante, dipinse il quadro essendo quasi cieco: aveva perso la vista nel maggio del 1333, fissando il sole durante un’eclissi. Da quel giorno, pare, egli “ebbe nuvoli davanti agli occhi” e la malinconia lo perseguitò fino alla morte. L’aneddoto e il dipinto (il primo ‘notturno’ della pittura italiana) sono ricordati da Ruggero Pierantoni in un saggio sulla Fisiologia e storia della visione (R. Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Torino 1993, p. 108).
I danni dell’osservazione diretta del sole, in special modo durante un’eclissi, sono esperienza comune la cui diagnosi non necessita di specifica cultura medica. Si tratta di una patologia definita come ‘maculopatia fototraumatica’ o, empiricamente: nebula, nuvolo. La luce solare diretta produce infatti una cicatrice nella macula, una zona cieca al centro della visuale che appare come una nuvola scura.
Una patologia dal grande potenziale metaforico! Illuminazione, cecità, rivelazione...
Non sembra invece aver bisogno di alcuna protezione il temerario Socrate che appare in scena nelle Nuvole di Aristofane intento, dall’alto di una cesta, a guardare il sole. La scena doveva destare un certo stupore: la cesta sospesa in aria atterrava sulla piattaforma scenica grazie a un (relativamente) sofisticato congegno: la ‘gru’. Essa consentiva la realizzazione di questo teatrale 'volo' e riportava Socrate con i piedi per terra, richiamatovi dalle grida di Strepsiade.
Ma Socrate non è il solo, nelle Nuvole, a rischiare la vista. Ha difficoltà di messa a fuoco il rozzo Strepsiade, nel corso della sua ‘cerimonia iniziatica’ al pensatoio socratico, dove è giunto per imparare a tenere in scacco i suoi creditori con elaborati discorsi. Ha le 'cispe' negli occhi? Si chiede Socrate. Infatti, tarda a vedere sopraggiungere il Coro. E anche le Nuvole, dee del Pensatoio scoratico, sopraggiunte, esibiscono un modo peculiare di guardare la terra, sgombrando il volto da un misterioso “nuvolo piovoso”.
Come i pastori di Gaddi!
Socrate, Strepsiade e le Nuvole hanno, o rischiano di avere, nuvoli davanti agli occhi: sembra dunque che l’intera commedia ruoti intorno al problema del vedere e alla fisiologia della visione, con le sue metafore e la sua ricca semantica. La menomazione della visione ha uno spessore sia comico sia filosofico.
L’idea comica alla base della commedia nasce in effetti dalla risemantizzazione del detto universale: ‘gettare qualcosa negli occhi a qualcuno’ come equivalente di ‘ingannare’.Tuttavia, pur in una commedia assiduamente e minuziosamente studiata come le Nuvole, l’opera di Aristofane più travagliata, questo aspetto è passato del tutto inosservato perché il tema veniva sviluppato proprio sul piano della vista: un piano che ci sfugge! Abbiamo solo un testo e (quasi) niente su come venisse messo in scena. Ho fatto qualche ipotesi in un articolo di qualche anno fa: Vista, parole e inganno nelle “Nuvole” di Aristofane, in Stratagemmi 29/30 (2014).
Ecco un cenno: Socrate, persuasosi ad accettare Strepsiade come allievo, lo invita a sedersi e a prendere una corona, poi compie una serie di gesti che simulano un rituale di iniziazione: Strepsiade deve essere iniziato al Pensatoio!
Gesti che lo spettatore certamente vedeva, ma di cui Socrate non fornisce alcun resoconto verbale. Il lettore può ricostruire ciò che accade sulla scena soltanto sulla base della battuta con cui Strepsiade mostra di aver recepito, oltre alle parole, le azioni di Socrate ed esclama: “diventerò farina!”. Dobbiamo dunque immaginare Socrate intento a compiere l’azione di cospargere dall’alto il malcapitato e recalcitrante Strepsiade seduto o sdraiato con quantità di farina, mentre costui cerca con un qualche movimento di sottrarsi al ‘rito’, il che giustifica l’ammonizione successiva a “stare fermo”.
Ciò che invece Socrate dice, per motivare la procedura, è che in tal modo Strepsiade diventerà "nel parlare, eccellente, il fior fiore, sottilissimo!”. Tutta la scena si regge sul doppio senso innescato dagli aggettivi che descrivono la farina: sottile, cioè scelta, eccellente. Strepsiade però mostra di avere ben chiaro che una simile aspersione lo renderà concretamente e non metaforicamente “farina”: infatti, sentendosi ingannato, è proprio così che reagisce, intimando a Socrate: “Non mi ingannare! Diventerò farina!”. Da questo momento in poi, invece, e fino all'ingresso delle Nuvole, Strepsiade, cosparso di farina, vede a malapena i movimenti scenici: alla mimica, oltre che alle parole, sarà stata affidata la resa teatrale della sua ‘cecità’ (di cui Socrate è ben consapevole, ma di cui farà finta di stupirsi, attribuendola, al v. 327, a “cispe grosse come zucche”).
La cerimonia iniziatica officiata da Socrate, preliminare alla visione delle dee, ha dunque l’effetto paradossale di creare una cecità artificiale: Strepsiade, al termine di essa, non è affatto in grado di “vedere chiaramente”; anzi, non ci vede proprio più. La comicità della scena è assicurata dal fatto che ora egli non vede ciò che tutti gli altri vedono ed è costretto, per farsene un’idea, a fidarsi di ciò che Socrate gli va dicendo.
Attento lettore delle Nuvole deve essere stato Platone (Le Nuvole furono infatti riscritte ma non rimesse in scena: circolò verosimilmente il testo della riscrittura) perché nel Fedone, il suo Socrate torna a parlare della vista in un lungo excursus autobiografico.
Da giovane, nelle sue ricerche di carattere fisico e naturalistico - racconta Socrate - aveva sofferto e più volte cambiato idea (“mi volgevo su e giù”). Sperava di trovare nei libri, e non trovò, la risposta ai suoi quesiti. Nessuno dei filosofi naturali di cui lesse i libri - Empedocle, Anassimene, Anassimandro e Democrito – gli parvero metodologicamente attendibili. Il modo di ragionare di costoro, con trascuratezza, è descritto in questo modo:
Stanco com’ero di osservare le cose, mi parve bene dovermi guardare che non mi capitasse ciò che capita appunto a quelli che contemplano e osservano il sole durante un’eclissi; perché alcuni talora ci perdono gli occhi, se non osservano l’immagine riflessa nell’acqua o in qualcos’altro del genere. Ora, anch’io pensai a qualcosa del genere, e temetti di diventare del tutto cieco dell’anima a puntare gli occhi sulle cose e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve bene che dovessi rifugiarmi nei ragionamenti e indagare in essi la verità delle cose.
Non è singolare questa contro-illuminazione? I fisici e, per un certo tempo, lo stesso Socrate, hanno fissato troppo direttamente gli oggetti della loro indagine e hanno finito per rovinarsi la vista: le loro teorie sono il prodotto di sensi danneggiati...
I cattivi maestri si danneggiano la vista - fissando troppo direttamente l'oggetto della loro indagine - e danneggiano quella dei loro allievi, direttamente e comicamente, come fa il Socrate di Aristofane; indirettamente e seriamente come avviene per il Socrate platonico, lettore troppo assiduo.

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