domenica 23 novembre 2025

I doni della povertà


Odisseo mendicante in una terracotta melia (460-450 a. C. ) New York, Metropolitan Museum of Art

Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche noi tutti dovremo rallentare. Proviamoci con un po’ di storia alle spalle, con un po’ di intelligenza, di umanità davanti. […] La scelta è tra essere poveri nella consapevolezza del la propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili. Occorre accingerci a costruire una culura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza.

Con queste parole, qualche tempo fa, Edmondo Berselli concludeva un denso saggio sull’economia giusta.

“Povertà” è parola maledetta, fantasma che aleggia. Nella “seconda Età dell’Argento”, la nostra, secondo Sloterdijk, la povertà è relitto che sgomenta. Effetto non dissimile doveva provocare il suo ingresso in scena, a metà spettacolo, sugli spettatori ateniesi del Pluto di Aristofane, nel 388 a. C. Livida, lo sguardo tragico e folle, Penía, la povertà personificata, è “l’essere più spaventoso che c’è al mondo”. I suoi doni, dice il protagonista della commedia, sono:

[…] bambini affamati, vecchie vocianti. Eserciti di pidocchi, zanzare, pulci, che ci ronzano attorno alla testa e ci svegliano dicendo: “Alzati, vai a far la fame!”. E invece di un mantello, uno straccio; invece di un letto, un giacigli di giunchi pieno di cimici che ti tengono sveglio; invece di un tappeto, una stuoia marcita; invece di un cuscino un sasso sotto la testa. Mangiare non pane, ma gambi di malva; non focacce, ma foglie di ravanello. Per sedile, un otre sfondato, per madia la doga di una botte scassata.

Un quadro di privazioni e di miseria che toccava, nel suo realismo comico, una corda sempre dolente, in un territorio cronicamente esposto al rischio della sussistenza.

Molto interessante la battuta successiva, in cui Penía si dissocia da quel quadro terrificante:

Non hai descritto la mia vita, ma quella dei mendicanti […]. Non è questo il mio modo di vivere, grazie a Dio, e neanche lo sarà mai. La mendicità è vivere senza niente; il povero vive risparmiando e lavorando, senza il superfluo, ma non gli manca il necessario.

Non è affatto sofistica la distinzione fra πτωχοῦ βίος, ptochou bios, la vita del mendico, e penetos zen, πένητος ζῆν, la vita del povero: ptocheia πτωχεία è la mendicità (l’etimologia si collega a πτήσσω, ptesso ‘spavento’ o intransitivamente ‘mi spavento’, πτόα, ‘terrore’, dalla radice ind. e. *pet); πενία è invece la povertà, il bisogno (da πένομαι, ‘mi affatico’, ‘mi affaccendo’, dalla radice ind.e. *pen, che comporta ‘tensione’): anche nella lingua latina, paupertas comporta uno stile di vita austero e parco, al limite della sussistenza, mentre egestas è deprivazione totale.

La povertà (non la mendicità) è incredibilmente difesa da Penía in un agone comico abbastanza anomalo da cui essa esce vincitrice a spese del protagonista Cremilo. Costui era un contadino onesto e povero, che si era proposto —all’inizio della commedia— di ridare la vista al dio cieco della ricchezza, Pluto, ‘ridistribuendolo’ secondo criteri morali. Allo scopo, il vecchio dio è condotto nel santuario di Asclepio, dove, fra ciarlatanerie varie, i malati vengono curati nel sonno e dove egli in effetti prodigiosamente guarisce. 

Tutti adesso sono felici e benestanti, ma anche (tema caro ad Aristofane) dimentichi degli dei. Una frettolosa pacificazione mette rimedio alla situazione e, a sancirla, il dio viene infine portato in corteo al tempio di Atena. 

Ma, prima della guarigione del dio, adirata per essere stata ingiustamente messa da parte, irrompe tuttavia in scena la Povertà in persona, Penía a sostenere le sue ragioni in un confronto dialettico. Nell’agone, dunque, essa presenta la condizione del povero come il principio generativo delle attività umane, un formidabile motore della divisione del lavoro e la base di ogni economia: se mancasse la povertà, nessuno farebbe più nessun lavoro, eserciterebbe alcun mestiere. Si tratta di un’idea molto ‘politica’, integrata, della povertà (e della ricchezza), che riproduce, ma al contempo espone al dubbio comico, un modello comune e ‘naturale’ che mette in sequenza il bisogno/mendicità e la povertà/technai.

La povertà è quel rimedio, veicolatore di stimoli e di incentivi all’esercizio di una techne, che consente di superare ed esorcizzare tanto la mendicità quanto l’eccesso di ricchezza. I lavori —dice Penía— esistono per soddisfare i bisogni personali e comunitari, come risposta alla mendicità.

Nel progetto di Cremilo, la strada verso la ricchezza non passava né dalla povertà né dalle technai. Nel mondo alla rovescia della commedia non ce n’è alcun bisogno. L’opzione espressa da Penia è invece che sia distribuita ugualmente non la ricchezza ma la povertà. Sugli uomini‘ugualmente ricchi’ incombe infatti la minaccia della dis-integrazione: ognuno sarà costretto a fare interamente da sé il lavoro che di norma è diviso fra i membri della società in una sorta di autarchia originaria.

È invece attraverso la distribuzione egualitaria di Penía che può costituirsi la società: essa porta con sé un bagaglio di relazionalità e dinamicità che Pluto non possiede. Ma neppure πτωχεία. Penía e le technai occupano il centro, il desiderato giusto mezzo, in virtù del loro grado di relazionalità e di comprimibilità: sono valori medi, perché suscettibili di essere compressi fino alla misura richiesta, né troppo né troppo poco.

Penía governa infatti la sfera del vendere e del comprare, attività che comportano la compartecipazione di un produttore e di un destinatario in grado di misurarsi reciprocamente producendo ricchezza. Penía è davvero adatta ad essere materia di distribuzione ugualitaria in quanto intrinsecamente orientata alla misura: l’eccesso di soldi produce, come accade a chi si arricchisce a spese pubbliche, immediatamente disonestà e riprovazione societaria —lo stesso Cremilo deve ammetterlo— la povertà è invece stimolo alla virtù: “con me sta la moderazione, con Pluto l’eccesso"

Questo paradigma, agli inizi del IV secolo, sembra largamente consolidato. Ma, e l’ombra della sua in-salienza drammaturgica lo dimostra, la sequenza che assume a fondamento è tutt’altro che ‘naturale’ ed anzi ha proprio il carattere artificiale di paradigma: la vittoria argomentativa di Penía non ha nessuna incidenza sull'azione comica! 

Una seria obiezione alla legittimità e auspicabilità del bisogno come spinta alla ricchezza e della ricchezza stessa, garante di buone relazioni (commercio) viene da Socrate: nella Repubblica di Platone, egli fa questo ragionamento, replicando a Trasimaco che sostiene l'universalità e la bontà di fare il proprio interesse, in qualsiasi circostanza.

Cosa fa in realtà il pastore che porta al pascolo il suo gregge senza tenere conto dell’interesse delle pecore, ma in vista di un guadagno personale, ὥσπερ χρηματιστήν, come un “affarista”? Non sta in realtà esercitando la sua arte/techne, bensì quella —altra, con diverso oggetto e diversa funzione— del mercenario. Questa techne, trasversale alle altre, può essere associata alle altre technai, ma non va confusa con esse. Così chi riceve una paga, ricava un utile dal fatto di associare alla propria arte la techne del mercenario, ma così facendo non arreca nessun vantaggio alla propria arte, che potrebbe anche realizzare operando gratuitamente.

Lo stipendio non è tratto dalla techne esercitata, ma dalla techne mercenaria che ciascun technites associa alla propria:

[…] la medicina dà la salute e l’arte del mercenario dà lo stipendio, l’arte edilizia costruisce una casa e l’arte del mercenario dà lo stipendio; e ciò vale per le altre arti.

Si produce così una dissociazione fra le technai e il loro esercizio, da un lato, e la possibilità di arricchimento, dall’altro. Questa è defalcata da ciò che è proprio di ciascuna techne e conglobata in un’unica techne a se stante, definita come techne del mercenario, meramente aggiuntiva e inessenziale.

Esercitare un’arte o una techne e guadagnare uno stipendio sono per Socrate cose irrelate fra loro: il paradigma aristofanesco ne esce disarticolato, non solo comicamente come già accadeva, ma argomentativamente. Di più, le technai di per sé potrebbero essere esercitate senza alcun guadagno: l'artigiano è utile anche “quando lavora gratuitamente”.

Priva di contenuto morale, l’arte di guadagnare uno stipendio resta sostanzialmente impensata e impensabile per Socrate.  

Autori citati:

BERSELLI, E., L’economia giusta, Torino, Einaudi, 2010.

SLOTERDIJK, P., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Milano, Raffaello Cortina, 2010 [20091].

sabato 1 novembre 2025

Vedere le Nuvole!

Il coro delle Nuvole, nell'allestimento di A. Calenda a Siracusa (2021)


Nell’Annunciazione ai pastori di Taddeo Gaddi, a Santa Croce, un angelo incandescente abbaglia due pastori, uno dei quali cerca di proteggersi coprendo il volto con la mano. 

Gaddi, allievo di Giotto e autore di un ritratto di Dante, dipinse il quadro essendo quasi cieco: aveva perso la vista nel maggio del 1333, fissando il sole durante un’eclissi. Da quel giorno, pare, egli “ebbe nuvoli davanti agli occhi” e la malinconia lo perseguitò fino alla morte. L’aneddoto e il dipinto (il primo ‘notturno’ della pittura italiana) sono ricordati da Ruggero Pierantoni in un saggio sulla Fisiologia e storia della visione (R. Pierantoni, L’occhio e l’idea. Fisiologia e storia della visione, Torino 1993, p. 108).

I danni dell’osservazione diretta del sole, in special modo durante un’eclissi, sono esperienza comune la cui diagnosi non necessita di specifica cultura medica. Si tratta di una patologia definita come ‘maculopatia fototraumatica’ o, empiricamente: nebula, nuvolo. La luce solare diretta produce infatti una cicatrice nella macula, una zona cieca al centro della visuale che appare come una nuvola scura. 

Una patologia dal grande potenziale metaforico! Illuminazione, cecità, rivelazione...

Non sembra invece aver bisogno di alcuna protezione il temerario Socrate che appare in scena nelle Nuvole di Aristofane intento, dall’alto di una cesta, a guardare il sole. La scena doveva destare un certo stupore: la cesta sospesa in aria atterrava sulla piattaforma scenica grazie a un (relativamente) sofisticato congegno: la ‘gru’. Essa consentiva la realizzazione di questo teatrale 'volo' e riportava Socrate con i piedi per terra, richiamatovi dalle grida di Strepsiade. 

Ma Socrate non è il solo, nelle Nuvole, a rischiare la vista. Ha difficoltà di messa a fuoco il rozzo Strepsiade, nel corso della sua ‘cerimonia iniziatica’ al pensatoio socratico, dove è giunto per imparare a tenere in scacco i suoi creditori con elaborati discorsi. Ha le 'cispe' negli occhi? Si chiede Socrate. Infatti, tarda a vedere sopraggiungere il Coro. E anche le Nuvole, dee del Pensatoio scoratico, sopraggiunte, esibiscono un modo peculiare di guardare la terra, sgombrando il volto da un misterioso “nuvolo piovoso”.

Come i pastori di Gaddi! 

Socrate, Strepsiade e le Nuvole hanno, o rischiano di avere, nuvoli davanti agli occhi: sembra dunque che l’intera commedia ruoti intorno al problema del vedere e alla fisiologia della visione, con le sue metafore e la sua ricca semantica. La menomazione della visione ha uno spessore sia comico sia filosofico. 

L’idea comica alla base della commedia nasce in effetti dalla risemantizzazione del detto universale: ‘gettare qualcosa negli occhi a qualcuno’ come equivalente di ‘ingannare’.Tuttavia, pur in una commedia assiduamente e minuziosamente studiata come le Nuvole, l’opera di Aristofane più travagliata, questo aspetto è passato del tutto inosservato perché il tema veniva sviluppato proprio sul piano della vista: un piano che ci sfugge! Abbiamo solo un testo e (quasi) niente su come venisse messo in scena. Ho fatto qualche ipotesi in un articolo di qualche anno fa: Vista, parole e inganno nelle “Nuvole” di Aristofane, in Stratagemmi 29/30 (2014). 

Ecco un cenno: Socrate, persuasosi ad accettare Strepsiade come allievo, lo invita a sedersi e a prendere una corona, poi compie una serie di gesti che simulano un rituale di iniziazione: Strepsiade deve essere iniziato al Pensatoio!

Gesti che lo spettatore certamente vedeva, ma di cui Socrate non fornisce alcun resoconto verbale. Il lettore può ricostruire ciò che accade sulla scena soltanto sulla base della battuta con cui Strepsiade mostra di aver recepito, oltre alle parole, le azioni di Socrate ed esclama: “diventerò farina!”. Dobbiamo dunque immaginare Socrate intento a compiere l’azione di cospargere dall’alto il malcapitato e recalcitrante Strepsiade seduto o sdraiato con quantità di farina, mentre costui cerca con un qualche movimento di sottrarsi al ‘rito’, il che giustifica l’ammonizione successiva a “stare fermo”.

Ciò che invece Socrate dice, per motivare la procedura, è che in tal modo Strepsiade diventerà "nel parlare, eccellente, il fior fiore, sottilissimo!”. Tutta la scena si regge sul doppio senso innescato dagli aggettivi che descrivono la farina: sottile, cioè scelta, eccellente. Strepsiade però mostra di avere ben chiaro che una simile aspersione lo renderà concretamente e non metaforicamente “farina”: infatti, sentendosi ingannato, è proprio così che reagisce, intimando a Socrate: “Non mi ingannare! Diventerò farina!”. Da questo momento in poi, invece, e fino all'ingresso delle Nuvole, Strepsiade, cosparso di farina, vede a malapena i movimenti scenici: alla mimica, oltre che alle parole, sarà stata affidata la resa teatrale della sua ‘cecità’ (di cui Socrate è ben consapevole, ma di cui farà finta di stupirsi, attribuendola, al v. 327, a “cispe grosse come zucche”). 

La cerimonia iniziatica officiata da Socrate, preliminare alla visione delle dee, ha dunque l’effetto paradossale di creare una cecità artificiale: Strepsiade, al termine di essa, non è affatto in grado di “vedere chiaramente”; anzi, non ci vede proprio più. La comicità della scena è assicurata dal fatto che ora egli non vede ciò che tutti gli altri vedono ed è costretto, per farsene un’idea, a fidarsi di ciò che Socrate gli va dicendo.

Attento lettore delle Nuvole deve essere stato Platone (Le Nuvole furono infatti riscritte ma non rimesse in scena: circolò verosimilmente il testo della riscrittura) perché nel Fedone, il suo Socrate torna a parlare della vista in un lungo excursus autobiografico.

Da giovane, nelle sue ricerche di carattere fisico e naturalistico - racconta Socrate - aveva sofferto e più volte cambiato idea  (“mi volgevo su e giù”). Sperava di trovare nei libri, e non trovò, la risposta ai suoi quesiti. Nessuno dei filosofi naturali di cui lesse i libri - Empedocle, Anassimene, Anassimandro e Democrito – gli parvero metodologicamente attendibili. Il modo di ragionare di costoro, con trascuratezza, è descritto  in questo modo:

Stanco com’ero di osservare le cose, mi parve bene dovermi guardare che non mi capitasse ciò che capita appunto a quelli che contemplano e osservano il sole durante un’eclissi; perché alcuni talora ci perdono gli occhi, se non osservano l’immagine riflessa nell’acqua o in qualcos’altro del genere. Ora, anch’io pensai a qualcosa del genere, e temetti di diventare del tutto cieco dell’anima a puntare gli occhi sulle cose e a cercare di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve bene che dovessi rifugiarmi nei ragionamenti e indagare in essi la verità delle cose. 

Non è singolare questa contro-illuminazione? I fisici e, per un certo tempo, lo stesso Socrate, hanno fissato troppo direttamente gli oggetti della loro indagine e hanno finito per rovinarsi la vista: le loro teorie sono il prodotto di sensi danneggiati...

I cattivi maestri si danneggiano la vista - fissando troppo direttamente l'oggetto della loro indagine - e danneggiano quella dei loro allievi, direttamente e comicamente, come fa il Socrate di Aristofane; indirettamente e seriamente come avviene per il Socrate platonico, lettore troppo assiduo.

I doni della povertà

Odisseo mendicante in una terracotta melia (460-450 a. C. ) New York, Metropolitan Museum of Art Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Me...