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| Odisseo mendicante in una terracotta melia (460-450 a. C. ) New York, Metropolitan Museum of Art |
Dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche noi tutti dovremo rallentare. Proviamoci con un po’ di storia alle spalle, con un po’ di intelligenza, di umanità davanti. […] La scelta è tra essere poveri nella consapevolezza del la propria condizione storica e antropologica, da un lato, e dall’altro essere poveri nell’assoluta inconsapevolezza di ciò che è avvenuto, nella sorpresa dell’indicibile, e quindi soggetti a tutte le frustrazioni possibili. Occorre accingerci a costruire una culura, forse non della povertà, bensì della minore ricchezza.
Con queste parole, qualche tempo fa, Edmondo Berselli concludeva un denso saggio sull’economia giusta.
“Povertà” è parola maledetta, fantasma che aleggia. Nella “seconda Età dell’Argento”, la nostra, secondo Sloterdijk, la povertà è relitto che sgomenta. Effetto non dissimile doveva provocare il suo ingresso in scena, a metà spettacolo, sugli spettatori ateniesi del Pluto di Aristofane, nel 388 a. C. Livida, lo sguardo tragico e folle, Penía, la povertà personificata, è “l’essere più spaventoso che c’è al mondo”. I suoi doni, dice il protagonista della commedia, sono:
[…] bambini affamati, vecchie vocianti. Eserciti di pidocchi, zanzare, pulci, che ci ronzano attorno alla testa e ci svegliano dicendo: “Alzati, vai a far la fame!”. E invece di un mantello, uno straccio; invece di un letto, un giacigli di giunchi pieno di cimici che ti tengono sveglio; invece di un tappeto, una stuoia marcita; invece di un cuscino un sasso sotto la testa. Mangiare non pane, ma gambi di malva; non focacce, ma foglie di ravanello. Per sedile, un otre sfondato, per madia la doga di una botte scassata.
Un quadro di privazioni e di miseria che toccava, nel suo realismo comico, una corda sempre dolente, in un territorio cronicamente esposto al rischio della sussistenza.
Molto interessante la battuta successiva, in cui Penía si dissocia da quel quadro terrificante:
Non hai descritto la mia vita, ma quella dei mendicanti […]. Non è questo il mio modo di vivere, grazie a Dio, e neanche lo sarà mai. La mendicità è vivere senza niente; il povero vive risparmiando e lavorando, senza il superfluo, ma non gli manca il necessario.
Non è affatto sofistica la distinzione fra πτωχοῦ βίος, ptochou bios, la vita del mendico, e penetos zen, πένητος ζῆν, la vita del povero: ptocheia πτωχεία è la mendicità (l’etimologia si collega a πτήσσω, ptesso ‘spavento’ o intransitivamente ‘mi spavento’, πτόα, ‘terrore’, dalla radice ind. e. *pet); πενία è invece la povertà, il bisogno (da πένομαι, ‘mi affatico’, ‘mi affaccendo’, dalla radice ind.e. *pen, che comporta ‘tensione’): anche nella lingua latina, paupertas comporta uno stile di vita austero e parco, al limite della sussistenza, mentre egestas è deprivazione totale.
La povertà (non la mendicità) è incredibilmente difesa da Penía in un agone comico abbastanza anomalo da cui essa esce vincitrice a spese del protagonista Cremilo. Costui era un contadino onesto e povero, che si era proposto —all’inizio della commedia— di ridare la vista al dio cieco della ricchezza, Pluto, ‘ridistribuendolo’ secondo criteri morali. Allo scopo, il vecchio dio è condotto nel santuario di Asclepio, dove, fra ciarlatanerie varie, i malati vengono curati nel sonno e dove egli in effetti prodigiosamente guarisce.
Tutti adesso sono felici e benestanti, ma anche (tema caro ad Aristofane) dimentichi degli dei. Una frettolosa pacificazione mette rimedio alla situazione e, a sancirla, il dio viene infine portato in corteo al tempio di Atena.
Ma, prima della guarigione del dio, adirata per essere stata ingiustamente messa da parte, irrompe tuttavia in scena la Povertà in persona, Penía a sostenere le sue ragioni in un confronto dialettico. Nell’agone, dunque, essa presenta la condizione del povero come il principio generativo delle attività umane, un formidabile motore della divisione del lavoro e la base di ogni economia: se mancasse la povertà, nessuno farebbe più nessun lavoro, eserciterebbe alcun mestiere. Si tratta di un’idea molto ‘politica’, integrata, della povertà (e della ricchezza), che riproduce, ma al contempo espone al dubbio comico, un modello comune e ‘naturale’ che mette in sequenza il bisogno/mendicità e la povertà/technai.
La povertà è quel rimedio, veicolatore di stimoli e di incentivi all’esercizio di una techne, che consente di superare ed esorcizzare tanto la mendicità quanto l’eccesso di ricchezza. I lavori —dice Penía— esistono per soddisfare i bisogni personali e comunitari, come risposta alla mendicità.
Nel progetto di Cremilo, la strada verso la ricchezza non passava né dalla povertà né dalle technai. Nel mondo alla rovescia della commedia non ce n’è alcun bisogno. L’opzione espressa da Penia è invece che sia distribuita ugualmente non la ricchezza ma la povertà. Sugli uomini‘ugualmente ricchi’ incombe infatti la minaccia della dis-integrazione: ognuno sarà costretto a fare interamente da sé il lavoro che di norma è diviso fra i membri della società in una sorta di autarchia originaria.
È invece attraverso la distribuzione egualitaria di Penía che può costituirsi la società: essa porta con sé un bagaglio di relazionalità e dinamicità che Pluto non possiede. Ma neppure πτωχεία. Penía e le technai occupano il centro, il desiderato giusto mezzo, in virtù del loro grado di relazionalità e di comprimibilità: sono valori medi, perché suscettibili di essere compressi fino alla misura richiesta, né troppo né troppo poco.
Penía governa infatti la sfera del vendere e del comprare, attività che comportano la compartecipazione di un produttore e di un destinatario in grado di misurarsi reciprocamente producendo ricchezza. Penía è davvero adatta ad essere materia di distribuzione ugualitaria in quanto intrinsecamente orientata alla misura: l’eccesso di soldi produce, come accade a chi si arricchisce a spese pubbliche, immediatamente disonestà e riprovazione societaria —lo stesso Cremilo deve ammetterlo— la povertà è invece stimolo alla virtù: “con me sta la moderazione, con Pluto l’eccesso"
Questo paradigma, agli inizi del IV secolo, sembra largamente consolidato. Ma, e l’ombra della sua in-salienza drammaturgica lo dimostra, la sequenza che assume a fondamento è tutt’altro che ‘naturale’ ed anzi ha proprio il carattere artificiale di paradigma: la vittoria argomentativa di Penía non ha nessuna incidenza sull'azione comica!
Una seria obiezione alla legittimità e auspicabilità del bisogno come spinta alla ricchezza e della ricchezza stessa, garante di buone relazioni (commercio) viene da Socrate: nella Repubblica di Platone, egli fa questo ragionamento, replicando a Trasimaco che sostiene l'universalità e la bontà di fare il proprio interesse, in qualsiasi circostanza.
Cosa fa in realtà il pastore che porta al pascolo il suo gregge senza tenere conto dell’interesse delle pecore, ma in vista di un guadagno personale, ὥσπερ χρηματιστήν, come un “affarista”? Non sta in realtà esercitando la sua arte/techne, bensì quella —altra, con diverso oggetto e diversa funzione— del mercenario. Questa techne, trasversale alle altre, può essere associata alle altre technai, ma non va confusa con esse. Così chi riceve una paga, ricava un utile dal fatto di associare alla propria arte la techne del mercenario, ma così facendo non arreca nessun vantaggio alla propria arte, che potrebbe anche realizzare operando gratuitamente.
Lo stipendio non è tratto dalla techne esercitata, ma dalla techne mercenaria che ciascun technites associa alla propria:
[…] la medicina dà la salute e l’arte del mercenario dà lo stipendio, l’arte edilizia costruisce una casa e l’arte del mercenario dà lo stipendio; e ciò vale per le altre arti.
Si produce così una dissociazione fra le technai e il loro esercizio, da un lato, e la possibilità di arricchimento, dall’altro. Questa è defalcata da ciò che è proprio di ciascuna techne e conglobata in un’unica techne a se stante, definita come techne del mercenario, meramente aggiuntiva e inessenziale.
Esercitare un’arte o una techne e guadagnare uno stipendio sono per Socrate cose irrelate fra loro: il paradigma aristofanesco ne esce disarticolato, non solo comicamente come già accadeva, ma argomentativamente. Di più, le technai di per sé potrebbero essere esercitate senza alcun guadagno: l'artigiano è utile anche “quando lavora gratuitamente”.
Priva di contenuto morale, l’arte di guadagnare uno stipendio resta sostanzialmente impensata e impensabile per Socrate.
Autori citati:
BERSELLI, E., L’economia giusta, Torino, Einaudi, 2010.
SLOTERDIJK, P., Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, Milano, Raffaello Cortina, 2010 [20091].

