venerdì 27 giugno 2025

I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multiforme, ambiguo, duttile, imprevedibile, cangiante, non scolpito a grandi tratti, una volta per tutte»; Achille, l’eroe dell’Iliade, ha sempre suggerito l’idea della staticità, «eroe tutto d’un pezzo, compiuto in sé»: il suo profilo omerico parve a Milman Parry eminentemente tragico, nel suo isolamento e nella sua estraneità al mondo.  Mille fittizie identità, e annessa raccolta di nomi, patrie, genealogie, peripezie, possono tuttavia denunciare una cieca ostinazione, una fedeltà talora inutile alla “via dell’inventiva”, alla riluttanza a dichiarare la propria identità: Odisseo mente al padre quando ormai la strage dei pretendenti è compiuta, e mente a Penelope quando sia Telemaco che Euriclea sanno chi egli sia; una traiettoria la sua, in definitiva, non meno rigida di quella con cui Achille avanza, nell’Iliade, verso il suo destino di morte. Odisseo può essere svelato e riconosciuto soltanto risalendo indietro nel tempo, al “letto inamovibile”, ai tredici peri, dieci meli e quaranta fichi ricevuti fanciullo dal padre, i segni certi della sua identità rispetto ai quali il resto è invenzione e varietà; Achille proietta la sua identità avanti nel futuro, nella esemplarità conclusa e rotonda del suo essere eroe. E tuttavia, in questo suo profilo scultoreo, Achille subisce più di una trasformazione e anzi almeno quattro sono i corpi, le pose – per restare al lessico scultoreo - con cui l’eroe dell’Iliade attraversa il poema della sua ira.

La prima è seduta:

(…) seduto presso le navi che vanno veloci, era irato

Il figlio divino di Peleo, Achille piede rapido.

Mai all’assemblea si recava, gloria degli uomini,

mai alla guerra; e consumava il suo cuore,

li fermo 

(Iliade, I 488)

Il secondo corpo di Achille è dritto in piedi, eretto.

Achille caro a Zeus balzò in piedi; Atena intorno

alle spalle robuste gli gettò l’egida frangiata,

e intorno alla testa la dea gloriosa lo incoronò d’una nube

d’oro, fece uscire da lui una vampa splendente.

(Iliade, XVIII 203-206)

Come dobbiamo immaginare questo nuovo habitus? È la posa dei kouroi arcaici, dritti su entrambe le gambe, corpo e testa eretti verticalmente e rivolti all’osservatore? Non proprio. 

Achille orto dice il testo omerico: «balzò in piedi» traduce Rosa Calzecchi Onesti. Il movimento rende visibile la forza del corpo, il suo sollevarsi con le proprie forze contro la forza di gravità: è qualcosa di simile, ante litteram, al “contrapposto” o alla “ponderazione” della statuaria severa e classica. Egli è disarmato, e tuttavia provoca una fortissima reazione emotiva negli astanti. Si tratta di una vera e propria “epifania”, propiziata da Atena: tutti, animali e uomini, lo vedono e sentono la sua voce «bronzea»:

A tutti balzò il cuore; ed ecco i cavalli dalle belle criniere

subito voltarono i carri; dolori previdero in cuore;

gli aurighi inebetirono, come videro il fuoco indomabile

tremendo, sopra la testa del Pelide magnanimo

ardente (…)

(Iliade, XVIII 223-227)

L’ultima immagine di Achille è armata, con l’asta paterna, grande, pesante, solida: 

nessuno dei Danai poteva brandirla, solo Achille a brandirla valeva,

faggio del Pelio che Chirone aveva donato al suo padre,

dalla cima del Pelio, per dar morte ai guerrieri

(Iliade, XVI 141-144).

E con la panoplia fabbricata da Efesto. Così armato, Achille ha il chiarore della luna:

Come quando splende in mare ai naviganti il chiarore

d’un fuoco acceso, ch’arde in alto sui monti

in una stalla solinga; e i turbini loro malgrado

li portano sul mare pescoso, lontano dagli amici;

così saliva all’etere il lampo dallo scudo d’Achille;

bellissimo, adorno.

(Iliade, XIX 373-380)

A queste immagini dobbiamo aggiungerne una quarta, un guerriero che sembra Achille, indossa le sue armi – gli «schinieri belli, muniti d’argentei copricaviglia», «la corazza a vivi colori, stellata», «la spada a borchie d’argento, bronzea, e lo scudo grande e pesante», «l’elmo robusto, con coda equina» - ma non è Achille. Non appena i Troiani lo vedono, scintillante nelle armi:

A tutti il cuore fu scosso, le file si scompigliarono,

credendo che presso le navi il Pelide piede rapido

avesse smesso l’ira, ripresa l’amicizia.

Ciascuno spiava dove potesse fuggire l’abisso di morte

(Iliade, XVI 280-283)

Quattro corpi diversi dunque, quelli di Achille, che si dispongono sul crinale di una secca alternativa: vestire le armi o non vestirle; combattere o apparire ai combattenti; balzare in piedi o stare seduto; isolarsi o partecipare. Ma, anche, che sperimentano di ogni scelta due possibili varianti. Combattere: per interposta persona o in proprio nome; non mischiarsi agli altri: muto o urlando con voce sonora.

Fra questi quattro corpi il più interessante è il primo. Seduto.

Exekias, Achille e Aiace giocano a dadi, anfora da Vulci, 540-30 a.C., Museo Gregoriano Etrusco

È molto interessante osservare che, per illustrare il momento iliadico in cui Achille non combatte, i ceramografi lo dipingono intento a giocare a dadi, seduto. Il tema, ignoto all'epos, è un'invenzione dei ceramografi, che si staccano dal testo omerico ma restano fedeli alle sue intenzioni comunicative e ci restituiscono l'immagine del guerriero che non combatte, "inutile". Una variazione del mitologema del "re pescatore", un re ferito e impotente, al quale non resta che stare seduto su una barca dilettandosi con la pesca?
Rivolto a Patroclo, inviatogli da Achille per avere notizie sull’andamento della guerra, Nestore commenta il ritiro di Achille dalla guerra e afferma con asprezza che «egli solo trarrà utilità dal suo valore; eppure io
credo/che avrà da piangere molto, quando sia massacrato l’esercito» e lo stesso Patroclo, nel riferire le parole di Nestore vi aggiunge un’amara interrogazione: «in cosa un altro avrà utilità da te, anche un tardo nipote,/ se non difendi gli Argivi dalla rovina obbrobriosa?» 
Morto Patroclo, Achille vede se stesso seduto presso le navi, come «inutile peso della terra», benché forte in guerra quanto nessun altro. 
Ancora più eloquente è un'altra celebre iconografia di Achille seduto: una kylix del Pittore di Briseide illustra il momento in cui Achille è privato della schiava.



La scena raffigura la giovane nel momento in cui viene prelevata dalla tenda, mentre Achille seduto è avvolto da un mantello da cui sporgono appena gli occhi e la fronte dell’eroe. Lo stesso atteggiamento, seduto e avvolto dal mantello, è tenuto da Achille nell’episodio, illustrato da molti ceramografi, dell’ambasceria che gli Achei capeggiati da Odisseo inviano per convincerlo a riprendere la guerra, nel nono libro dell’Iliade. Nel cratere del Pittore di Eucharides, Achille e Odisseo sono seduti l’uno di fronte all’altro, con Achille piegato e imbacuccato. Questa iconografia di Achille, ammantato, con la testa reclinata e appoggiata alla mano è abbastanza comune in opere collocabili fra il 500 e il 470 a.C. 

Da notare il mantello. In Omero non c'è traccia di ciò.
Il capo velato è comunemente associato alle donne: la fanciulla e la donna greca portano di regola il velo a coprire volto e capo, sebbene possano in talune situazioni toglierlo. Spesso la donna è mostrata nel gesto di velarsi o svelarsi, cosicché il velo femminile è legato al movimento, alla comunicazione: è luminoso, trasparente, per nulla opaco e, nella pittura vascolare è raramente statico. Anche gli uomini sono talvolta mostrati nel gesto di velarsi, per coprire il volto contratto dalla commozione e segnato dal pianto. In questi casi lo scopo è nascondere alla vista altrui la colpa e la vergogna.
Nascondere lo sguardo o nascondersi allo sguardo?
Se guardiamo alla serie di riferimenti a dolore, colpa, vergogna, commozione e alla serie di posture, seduti, con la testa appoggiata alla mano, avvolti nel mantello - elementi che nell'iconografia sono talvolta riuniti e talvolta no - è difficile trovare una corrispondenza biunivoca fra il gesto e il sentimento individuale; ma forse è possibile individuare una situazione comunicativa, che coinvolge la corporeità non dell’individuo singolo ma degli individui che comunicano, a cui quei gesti si riferiscono. 

Achille appare ammantato in due episodi che hanno in comune la pertinenza al nucleo narrativo principale dell’Iliade - l’ira dell’eroe e il suo rifiuto della battaglia - in due momenti salienti: quello in cui essa ha inizio, con la contesa fra l’eroe e Agamennone e quello in cui è ormai irreversibile e Achille resta sordo alle argomentazioni di Odisseo. Dal punto di vista dei sentimenti di Achille si tratta, come ha notato Settis, di “ira” e “corruccio”, ma il mantello che avvolge l’eroe esprime qualcosa anche dal punto di vista della comunicazione, della interazione fra Achille e Agamennone e fra Achille e Odisseo.

Osserviamo per esempio la raffigurazione vascolare del confronto fra Achille e Odisseo, nel cratere di Eucharides.



Achille è avvolto in un mantello, la stoffa si dispone in giri e pieghe intorno al corpo dell’eroe, dalla testa giù fin quasi ai piedi, paralleli e poggiati a terra. Odisseo è nudo, il mantello aperto sul torace, le gambe accavallate, il ginocchio stretto dalle due mani. Il gesto di tenere le gambe accavallate può essere variamente interpretato: secondo Franzoni dall’età classica in poi potremmo comporre un doppio catalogo: quello delle gambe accavallate attribuite a figure ‘negative’, quello in cui lo stesso gesto è problematico o addirittura può assumere valenze positive. Come già per il gesto del velarsi, anche il gesto dell’accavallare le gambe non pare legarsi ad un preciso sentimento personale.

Invece di guardare alle due pose separatamente, consideriamo allora l’intera scena: la posa di Odisseo, dinamica, è l’opposto di quella di Achille, impedito nel movimento. Il mantello aperto dell’uno si chiude sull’altro e sembra quasi intrappolarlo. Lo stesso stare seduti è diverso: la posa di Odisseo suggerisce rilassatezza ma anche possibilità di movimento, i piedi sono liberi da impacci e lontani l’uno dall’altro, occupano porzioni diverse dello spazio. Ad Achille invece il movimento ampio e libero di Odisseo pare precluso, non è fisicamente possibile. I due eroi, benché condividano il medesimo spazio, sono estranei l’uno all’altro, per nessuno dei due è possibile comprendere l’altro, partecipare dei suoi movimenti. Sono reciprocamente invisibili. 
Ma ciò che è davvero significativo è che ciascuno di essi, a suo modo, sta compiendo la stessa azione.

Pensare.

In un film di Carlo Verdone di qualche anno fa, c’è un dialogo fra il protagonista Ernesto, interpretato dallo stesso Verdone, e Fulvio un conduttore radiofonico, interpretato da Claudio Bisio. Ernesto è un uomo di mezz’età, con un matrimonio noioso ed una vita abitudinaria, che viene sconvolta dall’arrivo di Cecilia, una ragazza molto più giovane di lui, abbandonata dal padre da piccola, e con la quale egli inizia una intensa relazione. In una scena del film, per nascondersi alla vista dei vicini, i due, sulla terrazza di un palazzo popolare, con i fili del bucato e i panni appesi, si nascondono sotto un lenzuolo. Ed ecco perché, tornato infine dalla moglie, Ernesto racconta a Fulvio in diretta radiofonica, la fine della storia:

Fulvio: “No no Ernesto, non mollare adesso eh! Regalaci ancora un’immagine”.
Ernesto: “Ma che ne so Fulvio, che ne so... Io non avevo mai tradito mia moglie e da quel
giorno non l’ho fatto più, però, ogni tanto, quando litighiamo e ho voglia di sentirmi un po’
infedele, vengo qua su in questa terrazza, prendo un lenzuolo e me lo metto in testa, poi
recito quella poesia. ‘C’è la neve nei miei ricordi / c’è sempre la neve / e mi diventa bianco
il cervello / se non la smetto di ricordare’".

Nel film, vediamo Ernesto che si ricopre con il lenzuolo. 

Fotogrammi del film “Manuale d’amore 2 – Capitoli successivi”, di Giovanni Veronesi.


Fuori di lui, il mondo continua con le sue rassicuranti abitudini; dentro lo spazio del lenzuolo, Ernesto ricorda la ragazza che ha amato, recitando la poesia da lei composta. I due spazi, separati, esistono entrambi. Ma uno – quello del ricordo, che può esistere soltanto nel pensiero – può a sua volta esistere sol-
tanto sospendendo temporaneamente l’altro (“ogni tanto”). Ernesto, velandosi, sospende la sua esistenza di marito fedele ed entra in risonanza con una parte profonda del pensiero, in cui egli rivive empaticamente il mondo interiore di Cecilia.

Le immagini dunque non illustrano né descrivono il testo omerico. Lo traducono in una diversa grammatica: stare seduti, con le gambe incrociate o avvolti nel mantello sono modi diversi di interrompere l'azione, momentaneamente impossibile, e pensare (o dare conto della propria momentanea inutilità, giocando). Modi diversi non rispetto al grado di integrazione del pensatore nella realtà circostante, ma modi diversi di pensare l’uno rispetto all’altro, nel caso - rarissimo - di pensatori che condividono lo stesso spazio figurativo. 

Per concludere: il pensatore solitario e silente, avvolto nel mantello, è separato dalla scena che si svolge intorno a lui, come è separato da un altro pensatore che condivida il suo spazio; altrettanto vale per il pensatore in precario equilibrio, con le gambe incrociate. Entrambi in qualche modo inaccessibili, l’uno invisibile e nascosto dal mantello, l’altro doppiamente “annodato” dall’incrocio delle gambe e delle braccia: Achille e Odisseo sono inaccessibili l’uno all’altro.

Su Odisseo: Nicosia, S. (2003). L'identità di Ulisse. In S. Nicosia (A cura di), Ulisse nel tempo. La metafora infinita. (p. 9-21). Padova: Marsilio.
Sul "re pescatore": Agamben, G. (2009). Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Torino: Bollati Boringhieri
Su kouroi e korai: Fehr, B. (1996). Kouroi e korai. Formule e tipi dell'arte arcaica come espressione di valori. In S. Settis (A cura di), I Greci. Storia cultura arte società. I Greci. 2. Una storia greca. I. Formazione.
Su Achille 'imbacuccato': Franzoni, C. (2006). Tirannia dello sguardo. Corpo, gesto, espressione nell'arte greca. Torino: Einaudi.(p. 785-843). Torino: Einaudi.
Sull'inutilità di Achille:Gilli, G. (1988). Origini dell'uguaglianza. Ricerche sociologiche sull'antica Grecia. Torino: Einaudi.

giovedì 5 giugno 2025

Abiti di scena nell'Odissea: vestiti, stracci e cambi d'abito vari di Odisseo

Cratere del Pittore di Persefone
Cratere del Pittore di Persefone, al MET, con varietà di abiti maschili e femminili

L’Odissea è un poema disseminato di vesti: ogni figura femminile - Calipso, Nausicaa, Circe, Penelope - ha ovviamente abiti e ornamenti convenienti, di altri personaggi è minuziosamente descritto l'abbigliamento, ma sorprendentemente è Odisseo a sfoggiare una gran quantità di 'outfit'. Chi viene dalla lettura dell'Iliade, in cui ci si veste e ci si spoglia quasi solo di armi - la scena della vestizione delle armi da parte dell'eroe è una delle cosiddette scene tipiche, di repertorio - può restarne sorpreso.

Perché  questa insistenza? 

Non si tratta di semplici dettagli descrittivi: ogni cambiamento nello stato di Odisseo è accompagnato da un cambio di abito. Questo schema, messo in evidenza in un articolo di qualche anno fa da Pietro Giammellaro (Coperto di misere vesti. Forme del vestire e codici di comportamento nel racconto omerico di Odisseo mendicante) è particolarmente evidente a partire dal libro V, e costruisce un filo nascosto che attraversa tutto il poema. Quando Odisseo lascia l'isola di Calipso, la dea lo riveste con vesti profumate, quasi cerimoniali: un addio che sembra un rito di sepoltura, un allontanamento dalla vita divina per rientrare, mortalmente, nella storia. Ma è Ino-Leucotea a suggerirgli di togliere quelle vesti, perché lo appesantiscono e rischiano di farlo annegare: il corpo, per salvarsi, deve spogliarsi dei doni. Riceve invece un velo, un oggetto minimo, che non copre ma protegge. 

È il primo oggetto non-identitario che consente a Odisseo di proseguire: Odisseo lo accetta dopo qualche riluttanza. 

Arrivato a Scheria, Odisseo è nudo. Non ha più nulla: né abiti, né nome, né titolo. Si presenta a Nausicaa come supplice, e la richiesta che fa è precisa: cibo, riparo, e vesti. Lì inizia un nuovo ciclo. Il dono degli abiti è il primo atto della sua reintegrazione nella parola e nella comunità. Ma sono abiti non propri, abiti da ospite.

Da quel momento, l'abito diventa sempre più centrale nella narrazione. Quando torna a Itaca, Odisseo viene trasformato da Atena: la dea gli indurisce la pelle, gli leva i capelli, gli toglie lo sguardo. Lo veste con cenci sudici, pelli spelacchiate, una bisaccia rotta. L'eroe deve svanire nella scena, per poterla osservare. Non è un inganno, ma una posizione. E proprio in quel travestimento affronta il mendicante-rivale Iro, assiste alla scena dei Proci, si fa riconoscere lentamente.

Compiuta la strage, Odisseo chiede che gli siano portati zolfo e fuoco, per pulire e purificare la vasta sala dove dove è avvenuta la carneficina dei Proci. La nutrice Euriclea gli risponde: 

"Sì, questo, creatura mia, tu l'hai detto a proposito.

Però anche tunica e manto porterò, buone vesti,

che così tu non stia, coperto l'ampie spalle di stracci,

qui nella sala: vergogna sarebbe".

Ma Odisseo prende tempo: "prima il fuoco".

Così quando Penelope scende dalle sue stanze, avvertita che Odisseo è tornato, non lo riconosce ("perché son sporco, e brutte vesti ho sul corpo" spiega Odisseo al figlio). E così finalmente Odisseo si lava e si riveste condecentemente. 

Tuttavia, non è questo l'ultimo abito di Odisseo! Infatti, riconosciuto dalla moglie, riappropriatisi entrambi dei "diritti del letto", Odisseo veste le "armi belle" perché è da eroe e da guerriero che deve concludersi il suo viaggio con una battaglia iliadica fra la "casa" di Odisseo e i parenti degli uccisi. Odisseo, che aveva preferito l'astuzia e lo stratagemma al combattimento corpo a corpo, l'arco e le frecce alla corta spada e all'asta, deve stavolta combattere da eroe e da re. Finché Zeus non lo ferma.

Ricapitoliamo: tutti gli abiti fino a un certo punto sono doni: di Calipso, di Ino, dei Feaci, di Atena, di Penelope (che aveva fornito quelli della partenza). Non esiste un momento in cui Odisseo scelga da solo cosa indossare: è curioso... Il suo corpo è sempre allestito da altri. 

L’unico gesto di rifiuto è il gettare le vesti divine. 

E anche questo, per essere compiuto, ha bisogno di un suggerimento esterno. L’abito è sempre linguaggio: altrui o proprio.

Le vesti offerte da Calipso, profumate e solenni, segnano un rito di passaggio dalla condizione divina alla condizione umana. Subito dopo, quelle stesse vesti diventano un ostacolo: nella tempesta mandata da Poseidone, sono proprio gli abiti a rischiare di ucciderlo, trasformandosi in zavorra. Il gesto di spogliarsi, suggerito da Ino, è il primo atto di autonomia: è necessario disfarsi di un’identità in prestito. Il velo ricevuto in cambio non definisce, non qualifica, ma sostiene: è un oggetto neutro, uno strumento di transizione.

La nudità, al momento dell’arrivo presso i Feaci, rappresenta la condizione zero: il naufragio dell'identità. Questo è confermato da molte altre scene di Odisseo fra i Feaci, che lo irridono: non sembra affatto un atleta, un mercante piuttosto, uno attento al guadagno, ignaro dello stile di vita aristocratico, del canto, della gara atletica, della guerra! 

Il travestimento, poi: un abito, sporco e degradato, per permettergli di agire in incognito nella sua stessa casa. Per mettere in scena il contrasto fra il falso re (i Pretendenti, scialacquatori e impudenti) e il vero re (Odisseo, il re di miseria, "coperto di misere vesti", ma anche Laerte, suo padre che si è lasciato andare per l'assenza del figlio e indossa una misera tunica). Un tema antico che percorre tutta l'ultima sezione del poema e che non sarebbe possibile esplorare senza il linguaggio dell'abito. 

Questa progressione dunque - dall’identità imposta all’identità scelta, attraverso il rifiuto, la nudità e il travestimento - è una delle strutture profonde del poema. 

E si gioca tutta sul corpo vestito, spogliato, travestito, rivestito.

Fino alla riappropriazione (ma forse meglio: costruzione) dell'identità: re e guerriero. In armi. 

(ma com'era vestito alla partenza? Penelope lo chiede al finto indovino - in realtà Odisseo stesso - come prova del fatto che egli abbia davvero conosciuto il marito. Ed ecco cosa risponde il finto indovino: 

"Un mantello purpureo, di lana, il chiaro Odisseo aveva,

doppio; e in esso gli era forgiato un fermaglio d’oro,

con doppia scanalatura, e v’era un cesello davanti:

nelle zampe anteriori, un cane teneva un cerbiatto screziato

e lo guardava dibattersi. E tutti ammiravano

come, pur essendo essi d’oro, l’uno cercasse di strozzare il cervo

e questo, bramando scappare, scalciasse coi piedi.

E notai la sua tunica, che sulla persona splendeva

come un velo di cipolla secca:

era delicata così, e come il sole era lucente")


Lessico essenziale dell'abbigliamento greco (omerico):

  • χιτών (chitōn): tunica, abito di base. Indossato da uomini e donne, era costituito da un telo quadrangolare, tagliato e cucito sul lato lungo e sulle spalle, con le maniche applicate o ricavate dall'ampiezza del telo; oppure pieghettato in modo da adattarsi al corpo. Si poteva indossare con o senza cintura. Era lungo fino ai piedi oppure più corto, specialmente per gli uomini

  • ἰμάτιον (imátion): mantello, spesso simbolo di status. Era un telo quadrangolare avvolto intorno al corpo in modo che un lembo ricadesse sulla schiena

  • πέπλος (peplos): drappo femminile. Era indossato solo dalle donne. Consisteva in un telo quadrangolare cucito lungo il lato lungo e ripiegato in modo da formare una balza, fermato sulle spalle con fibbie e spilloni

  • ζωνή (zōnē): cintura

  • σάνδαλον (sandalon): sandali. Erano il tipo di calzatura più comune, formata da una suola di cuoio fermata al piede con lacci o cinturini di varia foggia.

  • ἐσθής (esthes): veste, di tessuto prezioso, data in dono, delicata e lucente.

  • εἵματα (eimata): abiti, di qualsiasi foggia.

  • λώπη (lope): ampio mantello di pelle in forma di cappa (solo in Omero).

  • ϕαρος (pharos): sciarpa, stola di stoffa fine.

  • λαῖφος (laiphos): straccio, indumento dei mendicanti

  • ῥάκος (rakos): straccio, cencio, scampolo di stoffa

  • ῥόπαλον (ropalon): bastone del mendicante.

  • πήρη (pere): bisaccia.

Fonte: A. Perkidou-Gorecki, Come vestivano i Greci, Milano 1993.
Per approfondire: Department of Greek and Roman Art. “Ancient Greek Dress.” In Heilbrunn Timeline of Art History. New York: The Metropolitan Museum of Art, 2000–. http://www.metmuseum.org/toah/hd/grdr/hd_grdr.htm (October 2003)

I quattro corpi di Achille

Se l’eroe dell’Odissea è parso a molti, esegeti e semplici lettori, «eroe dai molti nomi, dalle molte fisionomie dalle molte identità, multi...